giovedì 26 dicembre 2019

La festa del Tòc a Cossogno: la tradizionale "elemosina del pane"

Oggi a Cossogno, il paese delle mie origini, si è svolta la secolare festa del Tòc, con la distribuzione del pane benedetto. Tòc in dialetto significa pezzo, qui inteso come pezzo di pane.
La civiltà moderna si è purtroppo abituata a considerare il pane come presenza ovvia sulle tavole.
Il pane nel passato invece era un simbolo. Durante le cerimonie per i defunti, nell’antichissimo rito del pasto funebre, il pane accompagnava o non raramente sostituiva il sale, come sorta di “elemosina funebre”: nel Verbano e nell’Ossola esempi si ritrovano a Caprezzo e a Capraga di Premosello, ma innumerevoli sono i casi di legato testamentario per cui si prevede la distribuzione di alimenti, e di pane e sale in special modo, pro remedio animae, «per la salvezza dell’anima».
Il pane rappresentò sempre materia prima per l’offerta ai bisognosi; distribuzioni speciali venivano indette tipicamente una volta all’anno, ma qualche volta in due occasioni. In Valle Intrasca si narra che nel Seicento la pestilenza non abbia colpito i paesi di Intragna e Aurano ma si sia arrestata a fondovalle: «non avrebbe passato il Puntàsc, perché gli abitanti di quei paesi davano ul pàn caldàsc!, ossia compivano quelle doverose opere di misericordia verso il prossimo sofferente, necessarie ad ingraziarsi il favore divino e, quindi, a scongiurare l’avanzata del contagio». Assai documentata da vari storici locali (e tuttora praticata con trasporto e calorosa partecipazione degli abitanti) è per l’appunto la cosiddetta “Festa del Tòc” a Cossogno.

lunedì 16 dicembre 2019

La vera storia del lupo del 'Mazucher'

Dopo oltre novant’anni il lupo è tornato a frequentare le montagne della Val d’Ossola. Dall’uccisione dell’ultimo lupo, avvenuta all’alpe Mazzucchero nel 1927, il predatore era scomparso dai monti ossolani.
Per decenni, parlando e scrivendo della presenza storica di questo grande predatore, si citarono il “Lupo del Mazucher” e il suo giustiziere Giuvanin dul luv, immortalati da La Domenica del Corriere in una delle celebri copertine illustrate da Achille Beltrami.
Una storia quasi epica, questa, e come tale contesa tra due comunità, quella di Pieve e quella di Forno, in Valle Strona.
A tramandarla fino a noi hanno contribuito il breve racconto pubblicato dal settimanale milanese e i ricordi dei famigliari del Borghini, la moglie Margherita Rosetti e il figlio Dalmazio.
A queste narrazioni si aggiunge ora un articolo di cronaca poco noto, comparso a una settimana dal fatto su un giornale locale, La Gazzetta del lago, a firma GIGI, che aggiunge qualche particolare fino ad ora sconosciuto.

La copertina de "La Domenica del Corriere" dedicata all'uccisione del lupo del "Mazucher"


Leggiamo insieme quel che raccontò ai suoi lettori il giornalista del periodico intrese.
«La nostra breve storia del lupo e del pastore si è avverata sopra Pieve di Rumianca, nel versante ossolano del sistema che ha per culmine il Pizzo Camino: un gigante altissimo, dominante, fra la valle Anzasca, coi ghiacciai di Macugnaga, e la Val d’Ossola [...]».
È la mattina del 14 gennaio, di venerdì, quando il pastore Borghini Giovanni di Vincenzo e Francioli Maria, nato il 6 dicembre del 1898, abitante in località Pieve, nel Comune di Rumianca (che nel 1928 divenne Pieve Vergonte), decide di salire alla sua baita sita all’alpe Mazzucchero, un pascolo a 900 metri di altezza. Procede lentamente, aiutandosi con un bastone per non scivolare sul terreno ghiacciato e con «il fucile a tracolla, carico a mitraglia, per difendersi dalle bestiacce». E difatti scorge, lungo il sentiero, sulla neve che ricopriva i circostanti pianori, «tracce disordinate del vagare di un quadrupede».
«Si teneva accorto, ma non in attenti, perché l’estensione bianca consentiva alla vista di spaziare e scandagliare tutta l’ampiezza».
Giunto verso le ore 9 sulla soglia dell’uscio semiaperto della baita, Giovanni Borghini appoggia il bastone al muro e si accinge a entrare con l’idea di accendere il fuoco. Mai avrebbe pensato di vedere, accoccolato in un angolo della stalla, un grosso lupo! Sopresa e terrore lo paralizzano: «La bestiaccia balza verso la porta della baita, contro l’importuno arrivato. Non spaventa soltanto; perché agisce. Ritta sulle zampe posteriori, assalisce il pastore, colle altre due zampe, agisce; il Borghini riporta, frattanto, con la lacerazione della camicia e della maglia, graffiature al petto, sotto il collo. Il fucile, perché a tracolla e perché la bestiaccia è a contatto, carne contro carne, è un oggetto, sul momento, ingombrante. Non c’è da gridare, come il pastore di Esopo, lupus adest, perché non risponderebbe nemmeno l’eco, rivestito com’è – il luogo del suplizio – di soffice innocente neve».
L’uomo, però, non si dà per vinto. Riagguanta il bastone e sferra sul capo dell’animale una dirompente randellata che lo abbatte per un istante. Poi, di scatto, corre su retro della baita che, per un rialzo, ha il tetto quasi a filo del terreno. Vi sale sopra ma a stento, perché il lupo, ripresosi dal colpo infertogli, lo ha rincorso, riuscendo a raggiungerlo e ad addentargli la cavigliera da alpino che gli fascia la gamba.
Borghini è ormai ritto sul tetto, col fucile spianato verso il basso. Spara un colpo, due, tre: «La bestiaccia è a terra appena sotto il tetto, ma non vede più il pastore perché le schegge della mitraglia le hanno violato il muso e rotto le pupille». Altri tre colpi sul bersaglio ormai immobile e un rivolo di sangue arrossa la neve. Il lupo stringe i denti su un panno grigio: la fascia del pastore. Un ultimo respiro e il buio.

Giovanni Borghini e il lupo del Mazucher
Il cronista che pochi giorni dopo riportò i fatti su La Gazzetta, vide la carcassa dell’animale: «Pare un cane domestico, ma non è un cane; il colore è rossiccio, ad ondeggiamenti quasi neri, non molto dissimile dal colore del pelo dei domestici cani lupi; ma codesto pelo è irsuto, punto arricciato, alquanto più molle del soprabito del riccio spinoso ma alquanto più duro del pelo dei cani. È della spessezza di uno spillo di media dimensione. Grugno aguzzo, ma breve. Lungo da m 1.30 e 1.40; lingua spessa quasi un centimetro, coda tozza, di volume volpino. […]. Narrano gli anziani, che da diverse decine di anni, non si è notato la presenza di lupi nelle valli. Il soggetto potrebbe provenire, attraverso il Monte Rosa, dalla valle di Aosta, cacciato dal freddo, per avviarsi verso i colli di questo Lago Maggiore. Ovvero, provenire clandestinamente, e senza passaporto, in barba alle leggi fascistissime, dalla vicina Confederazione Svizzera. La bestiaccia è di sesso maschile».
L’aggressione e la conseguente uccisione del lupo non passarono inosservate. Sospettando che il lupo avesse una compagna, schiere di «volenterosi cacciatori» organizzarono battute «nell’intento di avere il bene di palpeggiare il pelo della lupa».
La Gazzetta del 5 febbraio titolava: Battute di gruppi di cacciatori nella regione ossolana: «La notizia dell’invasione di branchi di lupi nelle regioni dell’Ossola e del Cusio, e quella dell’uccisione di una belva in quel di Macugnaga, avevano messo in allarme gli abitanti di quelle zone, e numerosi gruppi di cacciatori iniziarono coraggiose battute. Si dice che un secondo lupo sarebbe stato colpito e ferito da un cacciatore; d’altra parte si afferma che da alcuni giorni nessun lupo è stato avvistato sia nell’Ossola che nel Cusio».
Com’è noto, la vicenda ebbe eco anche sulla stampa nazionale. La Domenica del Corriere del 30 gennaio 1927 gli dedicò la copertina. Dice la didascalia: «Un cattivo incontro in montagna. Un pastore, certo Borghini, giunto alla porta di una baita, fra le valli Anzasca e d’Ossola, scorgeva un lupo, che subito gli si avventava addosso, addentandogli il petto e lacerandogli gli abiti. Dopo una drammatica lotta, il pastore riusciva a saltare sopra un muricciuolo e a uccidere il lupo con una fucilata a bruciapelo».
L’episodio è ricordato anche nel volume La Valle Strona edito nel 1975, ma con una versione dei fatti diversa. Infatti leggiamo: «... Proprio sulle montagne di Forno, fece la sua apparizione l’ultimo lupo della valle, e delle valli vicine. All’alpe Campo, sul confine con i monti dell’Ossola, nell’inverno 1929-30. Un alpigiano di Forno, dopo l’inspiegabile uccisione di alcune pecore, trovò la belva nell’atto di insidiare un ennesimo gregge. Il tempo di armarsi, un lento e faticoso carosello all’inseguimento delle orme nella neve, infine due fucilate chiusero per sempre un’antica partita sanguinosa». E ancora, in una nota a piede di pagina: «Il coraggioso cacciatore si chiamava Giovanni Borghini. A Forno si racconta ancora la sua straordinaria avventura. L’inseguimento della belva durò 24 ore. Avvistatala al Campo verso 1’imbrunire, ridiscese al Forno per cercare le armi, ed un compagno. Salito di notte al Campo, alle prime luci dell’alba iniziò la lunga corsa nella neve, seguendo le tracce del lupo, di montagna in montagna. L’uccisione avvenne solo il pomeriggio, nei pressi dell’alpe Mazzuchero, sulle pèndici del Pizzo Camino, ormai lontano da Forno, dove i due erano giunti esausti».
Come però ricostruì Attilio De Matteis (ADM) raccogliendo i ricordi di Margherita e Dalmazio, moglie e figlio di Giovanni Borghini, il fatto si svolse sul palcoscenico ossolano in un contesto del tutto fortuito e il lupo, una volta ucciso, fu portato sul fondovalle, in frazione Rumianca, e poi a Pieve dentro una gerla. Una scena dell’uccisione fu ricostruita per il fotografo, con il corpo del lupo ingenuamente simulante una posizione “di attacco”, davanti alla casa del Borghini, in località Casella.
L’animale fu poi affidato al signor Vincenzo Tapella che lo fece imbalsamare da don Amedeo Ruscetta, il famoso "prete viperaio" di Croveo. In séguito fu esposto nell’osteria del Tapella e dopo la sua morte fu donato alle scuole elementari di Pieve, dove vi rimase per anni fino a quando nel 1995 venne recuperato dal dottor Ermes Manfrinato del servizio veterinario dell’Usl, affidato ai Civici Musei “G.G. Galletti” di Domodossola e da qui trasferito al Museo regionale di Scienze Naturali di Torino che provvedette a un completo restauro per poi restituirlo alla comunità ossolana.


Bibliografia

Gigi, Calata di lupi sulle nostre montagne?, in “La Gazzetta del lago” del 22 gennaio 1927
An. Battute di gruppi di cacciatori nella regione ossolana , in “La Gazzetta del lago” del 5 febbraio 1927
Copertina de “La Domenica del Corriere” del 30 gennaio 1927
La valle Strona, Fondazione E. Monti, Anzola, 1975, p. 105.
ADM, Il lupo di Mazucher, in “Eco Risveglio Ossolano”, 22 gennaio 1976, p. 11
G. Melloni, Il lupo di Mazucher, in “Lo Strona”, 1, 31 marzo 1976, pp. 25-26
F. Copiatti, Al lupo! Al lupo! Il ritorno del lupo in Ossola, in https://apassodivacca.blogspot.com, 8 febbraio 2019

© Fabio Copiatti

domenica 8 dicembre 2019

Lupi in Valle Intrasca: una tragedia di quattro secoli fa

Di lupi ho già scritto in questo blog l'8 febbraio 2019 (Al lupo! Al lupo! Il ritorno del lupo in Ossola), quando il "Network Lupo Alpi" confermò la presenza della prima coppia stabile di lupo del Verbano-Cusio-Ossola.
Torno a parlarne oggi, dopo che le indagini genetiche hanno confermato che i lupi vaganti sul territorio provinciale in primavera erano quattro e, soprattutto, a seguito di un nuovo avvistamento in alta Valle Strona, dove Matteo Cerini, figlio del proprietario di un gregge, è riuscito a riprendere l’attacco di alcuni lupi alle sue capre. Altra segnalazione è poi arrivata dalla Valle Anzasca, dove a Macugnaga, frazione Isella, il 5 dicembre sono stati visti 5 lupi.
Impossibile al momento avere un’idea del numero di lupi presenti sulle montagne della provincia del VCO, «Quello che sappiamo – ha spiegato Cristina Movalli dal Parco Nazionale Val Grande a VcoAzzurraTv – è che si muovono su un territorio molto ampio che va dalla Valle Strona all’Anzasca, si tratta di circa 250 km quadrati». Sono pericolosi per l’uomo? Istintivamente i lupi scappano prima dell’incontro con l'uomo, una presenza, quella umana, che loro riescono a captare ad ampia distanza. Per altro anche nella caccia la loro preferenza va all’animale selvatico prima che verso quello domestico. «Nel caso, non bisogna comunque mai cercare di avvicinarli, magari per fotografarli, o dar loro da mangiare» rimarca sempre Cristina Movalli.
Queste notizie, e soprattutto l’attacco al gregge di capre, mi hanno ricordato un fatto lontano, accaduto quattro secoli fa in Valle Intrasca e documentato da vetuste carte che ritrovai anni fa all’Isola Bella, presso l'archivio storico della famiglia Borromeo.


giovedì 7 novembre 2019

Cicogna, 7 novembre 1971: il ritorno di don Fiora

Il 4 gennaio di quarantotto anni fa moriva a Miasino Don Antonio Fiora, parroco di Cicogna dal 1944 al 1970, figura altamente significativa per la Valgrande, il Verbano e non solo. Don Fiora era giunto a Cicogna, frazione montana del Comune di Cossogno, il 23 agosto 1944, accompagnato da Don Giovanni Possi, parroco di Rovegro e vicario foraneo. Lui stesso ricordò così quel giorno:

«Non è facile immaginare e descrivere le prime impressioni! Ben 78 case bruciate […]. Il Vicario, pressato dalla popolazione che chiedeva insistentemente di avere un prete in paese, ottenne dalla curia vescovile un aspirante missionario che si trovava in Valsesia coi partigiani dati alla macchia. Da vecchio alpino non si è spaventato del paesino sperduto, isolato dal mondo, poiché il ponte Casletto era stato fatto saltare. Niente luce elettrica, niente telefono [...]. Arrivò sotto una pioggerella; la prima visita fu al piccolo Cimitero e lì si raccomandò ai cari Morti. La chiesa era in uno stato da far pietà. Tabernacolo scassinato, finestre cadenti, banchi tarlati, l’altare profanato, il campanile lesionato dai cannoneggiamenti. Subito fu chiamato ad assistere alle fucilazioni, preparando le vittime al tragico trapasso. Salvò otto persone dal mitra; fu fatto prigioniero e messo al muro. Dio lo salvò più volte mentre portava a spalle il pane e le medicine ai suoi parrocchiani. Sul suo giaciglio si adagiò per primo un partigiano ferito per più giorni. La sua baita era aperta a tutti giorno e notte».
(Dal Bollettino parrocchiale di Cicogna, agosto 1969).




giovedì 31 ottobre 2019

"Coi morti all’alpe Bovè" e le tradizioni della notte di Ognissanti

"La sera del 31 ottobre i morti torneranno a camminare sulla terra e sarà nuovamente Halloween". Inutile nascondere che la festa portata dagli irlandesi nel Nord America, la ricorrenza dell’Ognissanti del 1 novembre e la commemorazione dei defunti del 2 novembre, abbiano storie che si intrecciano e si sovrappongono.
Non è però mia intenzione inserirmi nell’acceso dibattito riguardante le origini di Halloween. Mi piace, invece, cogliere l’occasione per ricordare quella che fu una delle tradizioni secolari più sentite dalle nostre genti.
Era consuetudine – e per alcuni lo è ancora! – nella notte di Ognissanti lasciare sulla tavola un piatto di castagne cotte per sfamare e placare le anime dei defunti, affinché non tormentassero i vivi.
In passato era d’obbligo anche lasciare il focolare acceso, per permettere ai morti di scaldarsi. In Val Cannobina il paiolo con le castagne veniva lasciato appeso alla catena del camino. In Ossola si credeva che, banchettando, i morti predicessero il futuro dei vivi, ma chi avesse cercato di ascoltare avrebbe corso il rischio di essere accoltellato e di portare il coltello nella ferita sino all’anno successivo.
Mentre l’usanza delle “castagne per i morti” la conoscevo, essendo molto diffusa nei paesi del Verbano, la variante che vede colui o colei che origliano i discorsi dei morti e da questi vengono accoltellati, comune nel mondo alpino, credevo non fosse presente nel patrimonio fantastico della bassa Valgrande.
Anni fa, invece, nello scorrere le pagine consunte dei vecchi bollettini della parrocchia di Rovegro, trovai riportate alcune leggende raccolte dall’allora parroco don Giuseppe Soldani e tra esse una, dal titolo Coi morti all’alpe Bovè, che ricorda molto analoghe narrazioni tramandate in Ossola.

Il corte di Buè (Bovè nella leggenda raccolta da don Soldani), in Valgrande. Foto scattata negli anni '60

Ve la propongo, invitandovi la sera di Ognissanti a lasciare sulla tavola il consueto piatto di castagne cotte, ma, mi raccomando, non nascondetevi dietro la porta ad aspettare le anime dei nostri defunti!

Buona lettura!

domenica 29 settembre 2019

Val Grande, da "città estiva" a "Pompei alpina". Viaggio nel tempo da Cicogna a Ucciascia

Era una fredda giornata di fine inverno quando, sotto un cielo plumbeo che rendeva il paesaggio spettrale e triste, mi avviai verso il paese di Cicogna.
Dopo aver percorso per anni la valle con animo poco attento alle tracce del passato, iniziavo anch’io a provare quell’inguaribile sentimento che Nino Chiovini aveva voluto affettuosamente definire “Mal di Valgrande”.
Quel giorno d’inizio marzo del 1994 avevo programmato di raggiungere Ucciascia, Vüciaje nel dialetto di Cossogno, Comune a cui appartiene da sempre l’aspro e scosceso versante sulla sinistra orografica del rio Valgrande. In questa “spedizione esplorativa” mi avrebbero accompagnato tre fidati compagni: lo zio Paolo, mio cognato Lino e Bernard, un amico svizzero.
Di buon mattino partimmo dalla “piccola capitale” del parco nazionale, istituito da soli due anni, dopo aver fatto colazione a Ca’ del Pitur, così chiamata perché vi aveva abitato Giovanni Battista Benzi, il pittore di Cicogna, all’epoca era proprietà di una mia lontana cugina e ora accogliente bed & breakfast gestito dalla famiglia Mazzoleni.

Alpigiani di Cossogno a Müntüzze
(foto archivio ass. Le Ruènche, g.c. dalla fam. Perazzi)

domenica 8 settembre 2019

Una "bandita di caccia" alle origini del Parco Nazionale Val Grande?

Per la Val Grande, come da sempre si racconta, la primogenitura dell'idea di parco nazionale risale agli anni '50 del secolo scorso, quando la proposta di istituzione di una foresta demaniale fu sostenuta dal senatore generale Raffaele Cadorna e dall’onorevole Natale Menotti, che così ricordò anni dopo: «Era e doveva essere, almeno nella nostra mente, una specie di grande monumento da erigere non soltanto alla bellezza della nostra montagna ma anche a tutti coloro che in quella zona avevano combattuto e vi erano morti o erano stati feriti durante la guerra di Liberazione, tanto da meritare la qualifica di martire: Val Grande martire».

Müntuzze (Montuzzo), corte maggengale nella bassa Val Grande,
negli anni '60 del secolo scorso (foto T. Valsesia)

martedì 18 giugno 2019

I Martiri di Pogallo


Oggi il mio primo pensiero, appena svegliato, è andato a loro. Poi mi sono messo in viaggio verso l'ufficio, lungo quella valle, l’Ossola, sorella della “Valgrande martire”, accompagnato dal suono evocativo della chitarra di Matteo Goglio: «Mi son alzato/O bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao/Una mattina mi son alzato/E ho trovato l'invasor».




Come ricordarli, questi ragazzi – il più giovane aveva 16 anni, il più “vecchio” 22 – che il 18 giugno di 75 anni fa hanno sacrificato la vita per la nostra Libertà?
Io, a 16 anni, al termine dell’anno scolastico correvo felice nei prati appena falciati e strappavo ciliegie dalle fronde che per il peso dei frutti si flettevano verso terra.
Loro, invece, lottavano e morivano.
Non riesco a scrivere altro, non mi sento “autorizzato” a scrivere altro, io che non ho vissuto né miseria, né guerra.

Allora lascio che a ricordarli sia uno di loro, Ugo, con le parole dette e scritte all’indomani della prima Commemorazione tenutasi a Pogallo il 10 giugno del 1945.
Sono passati 74 anni, e sembrano tanti, ma anche per me, come per il partigiano Ugo, «il vostro ricordo mi sarà di monito e di insegnamento per il futuro».


lunedì 27 maggio 2019

Rovegro 27 maggio 1960: Don Giuseppe Soldani e l’Erba dell’Ascensione

Le tradizioni popolari legate alle erbe anche nelle Valli Intrasche, come in altre zone rurali italiane, sono assai ricche. Molte piante per secoli sono state utilizzate a scopo medicinale e alimentare, ma anche nei riti religiosi e addirittura nella magia e nella superstizione.
Nello scorrere le pagine consunte dei vecchi bollettini della parrocchia di Rovegro  risalenti al periodo dal 1957 al 1961, ho trovato una noterella di don Giuseppe Soldani, parroco a Rovegro dal 1949 al 1961, dedicata all’Erba dell’Ascensione (Sedum cepaea L.), pianta di cui mai avevo letto nelle pubblicazioni storiche ed etnografiche verbanesi.

1949, il nuovo parroco Don Giuseppe Soldani viene accolto dagli abitanti di Rovegro
(foto archivio Luigina Soldani, g.c. dal Gruppo Escursionisti Val Grande)

Nelle Valli Intrasche e in Valle Anzasca - ma anche in altre valli dell'Ossola - era invece molto conosciuto il Sedum telephium con i nomi di Erba della Madonna, Erba di S. Giovanni, telefio, borracina maggiore, erba dei calli e altri ancora. All'estero è curioso il suo nome inglese, Witch´s Moneybags, il porta monete della strega. Questa e altre erbe venivano raccolte il 24 giugno, giorno di S. Giovanni, bagnate dalla miracolosa rugiada mattutina, e poi tenute in casa con valore apotropaico o utilizzate per le loro virtù curative. Ma delle erbe e della rugiada di S. Giovanni vi parlerò in un’altra occasione.
Torniamo invece all’Erba dell’Ascensione; un’indagine veloce sul web ed ecco scoprire che in altre zone d’Italia tale erba è molto conosciuta.

Sedum cepaea L., foto di Andrea Moro, Dipartimento di Scienze della Vita, Università di Trieste, esemplare raccolto nel Comune di Orta San Giulio, sentiero che conduce ad Ameno, NO, Piemonte, Italia, 23/07/2012.
Fonte / Source: Portale della Flora d'Italia / Portal to the Flora of Italy http://dryades.units.it/floritaly

giovedì 25 aprile 2019

“Avere i ribelli, avere i ribelli”: I cürt di Biogna e la Resistenza

Lo scorso anno, a dicembre, ho avuto la fortuna di raccogliere alcune testimonianze di alpigiani che hanno vissuto all'Alpe Biogna, in Valle Intrasca. Buona parte del materiale è stato pubblicato sul libro "I cürt di Biogna". Uno dei testi introduttivi del volume - corredato da circa 400 foto - è dedicato a episodi della Resistenza che oggi voglio condividere con voi. Il libro sarà nuovamente presentato lunedì 29 aprile a Verbania Fondotoce presso le ex scuole elementari (Via 42 Martiri n. 82).

I monti dell'alta Valle Intrasca con i pascoli di Biogna in primo piano

“Avere i ribelli, avere i ribelli”: Biogna e la Resistenza
(Brano tratto dal libro I cürt di Biogna. Alpi e pascoli della Valle Intrasca)

Il secondo conflitto mondiale portò la guerra anche su questi monti della Valle Intrasca. Maria Borella raccontò che nei primi mesi della Resistenza la colonia di partigiani residente tra l’Alpe Pala e Miazzina faceva spesso incursioni al Fornà, facendosi consegnare burro e formaggio e rubando gli asini per trasportare il bottino appena conquistato.
Fortunatamente questa situazione ebbe fine quando le truppe partigiane si organizzarono in modo più organico: Arca, il comandante Armando Calzavara, riunì gli uomini nella brigata “Cesare Battisti” e comandò loro di non derubare più gli alpigiani. Molto intelligentemente chiedeva giornalmente latte, e burro una volta la settimana, ma questi venivano finalmente pagati con regolarità e la quantità ceduta variava in funzione delle possibilità economiche della famiglia che li produceva. Inoltre il comandante Arca si preoccupò di far avere alla famiglia Borella dei permessi speciali, con i quali potevano raggiungere l’alpeggio in condizioni di sicurezza e senza perdere il lavoro fornito da quei quaranta giorni di monticazione d’alta quota.

All’alpe Furnà negli anni ’30. Seduto a sinistra, con il cappello,Vittorio Borella (ul pà Vitori).
Dietro di lui. la bambina Maria Borella e Adelaide Martinelli.
A destra, seduto, Giovanni Borella che tiene sulle gambe il nipote suo omonimo Giovanni Borella;
dietro la moglie Teresa Minesi e la figlia Luigina Borella.
La coppia centrale sono i coniugni Ranzoni, milanesi oriundi di Cambiasca.

giovedì 18 aprile 2019

Gaetano Barabini, un altro pittore di storia a Caprezzo

Era la tarda primavera del 2005 quando Rinaldo Pellegrini, custode delle memorie caprezzesi, m’invitò a visitare l’ottocentesca cappella detta “In Prè”: «Ci sono degli affreschi che ricordano lo stile del Verazzi, ma non sono suoi, c’è la firma, “G. Barabini pinse 1860”», mi disse mentre  uscivamo dall’archivio parrocchiale dove avevo cercato – e trovato – notizie del “pittore di storia” Baldassare Verazzi.
Subito dopo m’incamminai verso il cimitero di Caprezzo, imboccai l'antica mulattiera che scende a Ramello e, poco distante, tra il verde intenso di boschi e prati, apparve la cappella.

In cammino verso la cappella "In Prè"

Era stata fatta costruire da Giuseppe Antonio Bisesti, come ebbi modo di leggere in un documento:
Eccellenza Reverendissima,Giuseppe Antonio Bisesti da Caprezzo servo umilissimo di sua Eccellenza Rev.ma avendo, fatto costruire per sua divozione una cappella campestre nel territorio di questa Parrocchia di Caprezzo, in un suo fundo, ove sono dipinte elegantemente le immagini della Sacra Famiglia, dei Ss. Apostoli Pietro e Paolo, e di S. Francesco, bramerebbe per sua maggior divozione, che dette immagini fossero benedette; quindi il Parroco di detto luogo Gio. Batta Ferini Strambi ricorre a Sua Eccellenza Rev.ma per la delegazione a qualche sacerdote per tale benedizione. Visto quanto le immagini cui nelle preci siano decenti, deleghiamo a benedirle colla forma la preferita dal Missale Romano il sig.r Parroco di Caprezzo. Novara 9 maggio 1861. La cappela fu poi benedetta dal Parroco D. Gio Batta Ferini Strambi il 20 maggio 1861.

Cappella "In Prè": Sacra Famiglia di G. Barabini

domenica 7 aprile 2019

Le "barricate" agli sposi: usanze nuziali tra valli intrasche e Ossola


Nello scorso fine settimana ho visitato la mostra Intrecci. Passato e presente della cesteria nelle Terre di Mezzo, allestita in occasione dell’annuale appuntamento che si tiene a Verbania Pallanza per celebrare le colorate e profumate camelie primaverili, vanto della floricoltura verbanese.

Come ho già avuto modo di sottolineare in altre sedi, questi «intrecci di passato e presente, di immagini e storia, di materiale e immateriale» hanno riscosso gradimento nel numeroso pubblico che nei due giorni ha riempito le sale della storica e fascinosa Villa Giulia. A chi non avesse avuto la possibilità di visitarla, segnalo che la mostra sarà ospitata dal 19 al 22 aprile presso il Museo Tattile di Scienze Naturali del Lago e della Montagna a Trarego Viggiona all'interno della manifestazione Sentiero d'Arte 2019.

Ad una delle foto esposte sono particolarmente legato. Ricorda un’usanza, forse la più gioiosa, quella delle “barricate” agli sposi, e vede i miei genitori, Lino e Giuseppina, ritratti lungo il cammino verso la chiesa.

Cossogno, Agosto 1957. Sciüpisce lungo il cammino
degli sposi Copiatti Lino e Ramoni Giuseppina

La tradizione è antichissima, già ricordata in molti statuti medievali del Novarese, della Valsesia e del Verbano-Cusio-Ossola ma anche del confinante Ticino, nei quali si vietava l’erezione di “barricate” per impedire il cammino agli sposi. La sciüpisce  così è chiamata a Cossogno, ma in ogni paese ha un suo nome – consisteva nel far trovare ai novelli sposi, sul cammino verso la chiesa, la strada sbarrata, simbolo delle difficoltà e delle asprezze della vita coniugale, con soste intermedie nel simbolico cammino verso il nuovo stato sociale e individuale.

lunedì 25 marzo 2019

Giochi incisi sulla pietra, antichi passatempi per bimbi di tutte le età

L’approssimarsi di una conferenza dedicata ai “giochi sulla pietra” che terrò a Baveno il 5 aprile 2019 mi sta portando a rivedere – virtualmente (sfogliando libri e foto) ma anche fisicamente – alcuni dei tavolieri più interessanti del Verbano-Cusio-Ossola (VCO). Il ripercorrere le vie dei paesi e l’incontro con “vecchi” e nuovi collaboratori mi stanno regalando inaspettate e pertanto gradite sorprese, ossia tria, filetti e altri giochi ad oggi ancora inediti.


Montorfano di Mergozzo: tavoliere segnalato da Martina Merlo


Le prime segnalazioni di giochi incisi su pietra nel Verbano e dintorni sono opera di Daniela Piolini e Nino Chiovini, entrambe risalenti alla seconda metà degli anni ’80. Filetto (conosciuto anche come triplice cinta, tavola mulino, mulinello, merler, ecc.) e tria (o tris) sono comuni sui cosiddetti “tavolieri”, ossia su lastre di copertura di muretti, su scalini, su veri e propri tavoli in pietra o, più raramente, su affioramenti rocciosi. Carlo e Luca Gavazzi nel 1997 ne censirono e pubblicarono centinaia, scoprendo che l’Alto Novarese è forse una delle zone più ricche al mondo di queste incisioni.

venerdì 15 marzo 2019

La cappella di Albanè: in cammino verso la Val Grande tra storie e ricordi

Dell’antica mulattiera che collega Cossogno a Ponte Casletto (quello pedonale, che scavalca la forra del rio Pogallo) e poi a Cicogna, paese noto come la piccola “capitale” del Parco Nazionale Val Grande, ho parlato nel primo articolo di questo blog.

Mi piace tornare a parlarne oggi, in questo “Venerdì per il futuro” (o “sciopero scolastico per il clima”), giorno in cui i giovani manifestano per chiedere ai governi politiche e azioni più incisive per contrastare il cambiamento climatico, perché su questo versante della valle sono ancora visibili i danni di una tromba d’aria che una decina di anni fa abbatté, "a macchia di leopardo", centinaia di alberi, evento del tutto anomalo per la zona.

Poco più di 40 anni fa i cürt che si incontrano lungo questo percorso erano ben visibili, non ancora soffocati dal bosco. L’abbandono però era già quasi totale, soprattutto nel tratto da Miunchio (Miüi) a Ponte Casletto. Affacciarsi sull’uscio di casere e stalle era come entrare in una Pompei alpina: arredi e oggetti d’uso quotidiano sembravano in attesa di un ritorno, quello del loro proprietario, che mai più sarebbe avvenuto.
Ora c’è il nulla, o quasi: Merchès, Le Loghe, Preciapùn, Elbenè, sono i nomi dei cürt, tutti ormai scomparsi, edifici con tetti e muri crollati, campi invasi da rovi, patrimonio di un’archeologia alpina "valgrandina" che negli anni a venire auspico possa diventare attività di studio e valorizzazione.


"Pompei alpine" in Val Grande lungo la mulattiera Cossogno-Ponte Casletto


Poco rimane, su questa via d’ingresso alla Val Grande, poco ma di grande interesse: la storica mulattiera, i ponti in sasso, un’edicola religiosa, i ruderi – e la memoria – dei quattro cürt sopra citati. È vero che, per quanto riguarda ad esempio le cappellette, nelle nostre valli se ne contano a centinaia (1500 nella sola Ossola!), e non tutte possono essere prese in seria considerazione nell’ambito di un serio programma di tutela e valorizzazione. Ma alcune, più di altre, meritano di essere studiate utilizzando le fonti archivistiche, bibliografiche, iconografiche e orali, come ad esempio la cappella di Elbenè (Albanè sulla carte topografiche ed escursionistiche, toponimo che dovrebbe derivare dal nome locale dialettale del pioppo tremulo, molto diffuso nei boschi di forra).

venerdì 8 marzo 2019

La Latteria Pirovini di Via Fiori Chiari: tre sorelle nella Storia di Milano

Delle sorelle Pirovini, che con la loro latteria di Milano sono entrate di diritto nella storia sociale del capoluogo lombardo, ho già scritto in passato nel libro La valigia di cartone. La loro famiglia proveniva da Cicogna, ma vissero buona parte della vita a Cossogno, alle porte della Val Grande, in una bella villa all’ingresso del paese.



«Il nome Pirovini dice molto ai Milanesi che frequentavano la zona di Brera quand’era ancora il quartiere degli artisti», scrisse la giornalista Maria Pia Rosignoli, moglie di Vittorio Scardovelli, uno dei loro nipoti. «Lì si trovava la famosa Latteria Pirovini, in via Fiori Chiari, a due passi dall’Accademia. Aperta alla fine dell’Ottocento da Pietro e Francesco Pirovini, fornitrice di ottimi gelati all’aristocrazia della zona, la latteria divenne presto uno dei ritrovi del mondo culturale milanese: su quei tavoli di marmo consumarono yogurt, caffèlatte e “svizzerine”, senza alcuna pretesa gastronomica, grandi nomi di teatro, cinema, pittura e letteratura. Nel 1944-45 gli ultimi e più duri anni della guerra, la trattoria era la mensa dell’Accademia frequentata [...] da notissimi volti come Guttuso, Ajmone, Kodra [...]. Lì, su un tavolo senza tovaglia, dalle discussioni fra Paolo Grassi e Giorgio Strehler nacque il Piccolo Teatro, inaugurato il 14 maggio 1947. Venivano Dario Fo, Franca Rame [...]. Le leggende intorno alla latteria Pirovini fiorivano [...], raccontavano di conti lunghissimi mai pagati, di battute fulminanti, di amori nati o sfioriti sotto gli occhi delle severe e devote sorelle Pirovini, Cecilia, Elena e Lina».

lunedì 4 marzo 2019

Carnevale a Bieno... con randello sul muso!

Mentre il nostro carnevale di rito romano sta volgendo al termine e si avvicina quello ambrosiano delle confinanti terre cannobiesi e lombarde, vi offro unaccesa richiesta scritta nel 1887 in quel di Bieno da un padre di famiglia che certo non amava maschere e antiche tradizioni popolari in uso nei giorni di lunedì e martedì grasso.


Bieno. Osteria Nazionale. Cartolina viaggiata nel 1931

BIENO. Un provvedimento (da La Voce del Lago Maggiore e dell’Ossola, 18 febbraio 1887)

Ci scrivono: L’Illustre Sotto-Prefetto del Circondario con savio consiglio ha proibito alle maschere d’introdursi nelle abitazioni private. Un abuso ancor peggiore avrebbesi ad estirpare. A Bieno, per esempio, le ore mattutine del Lunedi e Martedì grasso riescono per ogni famiglia quieta e tranquilla una vera vessazione, a non dir altro: e perché? É ben che si sappia: Se sbarrata la casa, una famiglia si allontana, è maledetta: se vi si rinchiude, con lazzi più o meno inverecondi è oltraggiata: se la porla anche sola socchiusa, vi si trattiene pei fatti suoi, ha la noia di vedersela invasa petulantemente, e peggio. 
E gli invasori sogliono essere bracchi d'un naso arcilungo; fiutano e rifiutano a dritta ed a traverso, di su e di giù e persino nelle pentole. Hai del salame appeso per stagionarlo, o frutta, od altro in serbo? allo strepito d’una musica, che ti strazia i timpani, ti trascinano la moglie o la figlia sul ballo per divertirsi, ed intanto la tua grazia di Dio è decimata per bene. 
Bollono al fuoco carne, o salsicciuoli, o che altro di consistente? Per poco che li distragga te l’azzaffano d’un colpo, e tra grida sguaiate e viva di trionfo le lo portan via e nol ricuperi più. Nè qui finisce: a cessare l’odiosa visita vino ci vuole; e non poco, che ne inghiottono a tutta canna, e ne imbottano quanto più possono. 
Vandali Villani! un randello sul muso al loro merito sarebbe ancor poco.

Un padre di famiglia

giovedì 28 febbraio 2019

Carnevali ottocenteschi a Cossogno e Trobaso

Oggi, giovedì grasso, ha avuto inizio il Carnevale. Le tradizioni legate a questa allegra e colorata festa, tanto cara ai bambini ma anche agli adulti, sono molte, alcune ancora in vita, altre ormai dimenticate. In ogni paese, fino a pochi decenni fa, si tenevano balli in maschera, si saliva sull’albero della cuccagna o si rompevano le pignatte. Inoltre – e questo è ancora attuale – si soddisfaceva l’appetito con polenta e salamini, ma anche trippa, spezzatino, merluzzo.
Molte città e paesi, poi, avevano – e hanno ancora oggi – i propri sovrani, re e regine del Carnevale. Altri hanno “regnato” per periodi più o meno lunghi e poi… scomparsi! Ad esempio, a Cossogno, il mio paese, chi si ricorda di Cossognino primo e della sua consorte Merie? E a Trobaso, che fine ha fatto Mastro Trobasino?
Ci aiutano a riportarli in vita alcuni articoli di giornale che mi piace proporvi. A voi la consueta buona lettura!

giovedì 21 febbraio 2019

Le streghe (e la fata) di Bieno: una leggenda dimenticata

Non c’è valle o paese delle Alpi che non abbia le sue streghe. In queste terre del Piemonte orientale sono molti i villaggi del Cusio ma soprattutto dell’Ossola che tra il XIV e XVI secolo hanno vissuto una vera e propria “caccia alle streghe” con innumerevoli processi messi in atto dai tribunali della Santa Inquisizione.
Non è però questa la sede per trattare un tema così vasto. A chi fosse interessato consiglio gli studi dello storico novarese Battista Beccaria che, con le sue ricerche d’archivio e i conseguenti saggi pubblicati su riviste e libri, ha portato alla luce l’ormai famoso processo alle streghe di Baceno e Croveo, ma anche tanti altri procedimenti giudiziari contro donne e uomini accusati di stregoneria.


Danza al Sabba dal "Compendium maleficarum" di F.M. Guaccio, 1626.

Tornerò però in seguito a parlare di guaritori e sospette streghe delle valli intrasche, riallacciandomi alle ricerche già pubblicate nel 2016 sulla rivista "Vallintrasche".
Quella che presento oggi è invece una leggenda “dimenticata”, non considerata da precedenti studi di folclore e raccolte di leggende verbanesi.
Si tratta della “resa letteraria” di una narrazione orale tramandatasi per secoli a Bieno (San Bernardino Verbano) e, per nostra fortuna, pubblicata il 13 ottobre 1943 sul giornale La Gazzetta a firma R.A.D., iniziali del giornalista scrittore Rossi Alchieri Dante. Streghe e fate sono protagoniste di questa “saga” ambientata sulle rive del laghetto esistente in antico nella località che oggi è chiamata “La torbiera di Bieno”, luogo di noti ritrovamenti archeologici databili tra il Neolitico e l’età del Bronzo ma anche di grande interesse naturalistico, inserita tra le aree prioritarie per la biodiversità del Verbano-Cusio-Ossola.

sabato 16 febbraio 2019

"Ama Dio e non fallire...": da Roma a Cossogno (o viceversa?) nella ricorrenza della morte di Giordano Bruno

A Roma il 17 febbraio dell’anno del Signore 1600 un frate domenicano viene prelevato dal carcere di Tor di Nona, dove giorni prima era stato richiuso. Le cronache dell’epoca raccontano che «fatti chiamare due Padri di san Domenico, due del Giesù, due della Chiesa Nuova e uno di san Girolamo, i quali con ogni affetto et con molta dottrina mostrandoli l'error suo, finalmente stette sempre nella sua maladetta ostinatione, aggirandosi il cervello e l'intelletto con mille errori e vanità. E tanto perseverò nella sua ostinatione, che da' ministri di giustitia fu condotto in Campo di Fiori, e quivi spogliato nudo e legato a un palo fu brusciato vivo, acompagniato sempre dalla nostra Compagnia cantando le letanie, e li confortatori sino a l'ultimo punto confortandolo a lasciar la sua ostinatione, con la quale finalmente finì la sua misera et infelice vita».
Questo frate rispondeva al nome di Giordano Bruno, giustiziato per la sua concezione filosofica considerata eretica.

Palo del Supplizio in Campo de’ Fiori in una stampa del 1700. A destra s'intravvede la fontana della Terrina

lunedì 11 febbraio 2019

Le leggende valgrandine nelle cartoline di Mario De Micheli

Ci sono uomini che scivolano nell’oblio, senza particolare motivo e ancor più inspiegabilmente se in vita hanno goduto di una qualche fama.
Alcuni di loro sono stati al centro delle mie ricerche: ripenso all’ecclesiastico cossognese Martino De Velate che nel Verbano e nell’Ossola tra Trecento e Quattrocento si distinse per carriera (arrivò ad essere vicario vescovile) e numero di figli (quattro sono quelli che conosciamo perché citati su vecchie pergamene); ai pittori caprezzesi Baldassare e Serafino Verazzi, padre e figlio, di cui del primo quest’anno ricorre il bicentenario della nascita; alla guida alpina d’Intragna Antonio Garoni, protagonista del libro che dà il titolo a questo mio blog.

Non contento, già da qualche anno sono sulle tracce di un altro di questi illustri personaggi dimenticati, M. De Micheli, pittore e illustratore (oltre che editore) di cartoline. Ho scritto, volutamente, solo l’iniziale perché sembra che di costui fino a 2 anni fa nessuno più ricordasse neppure il nome di battesimo. Così è citato, M. De Micheli, ogniqualvolta una sua cartolina – famose sono quelle dedicate alle leggende dei monti verbanesi – è stata pubblicata su carta stampata o web.

venerdì 8 febbraio 2019

Al lupo! Al lupo! Il ritorno del lupo in Ossola

Benvenuto lupo? Mi piace iniziare queste brevi note storiche con la stessa domanda posta in apertura del catalogo di “Tempo di lupi. La storia di un ritorno”, mostra esposta al castello di Vogogna e realizzata nell'ambito del progetto Life WolfAlps conclusosi lo scorso anno, progetto (e mostra) a cui ho collaborato tra il 2013 e il 2018.

Ieri, 7 febbraio 2019, è stata ufficializzata dal "Network Lupo Alpi" la presenza in Valle Strona e in Bassa Ossola della prima coppia stabile di lupo del Verbano-Cusio-Ossola, a dieci anni di distanza dall’arrivo in Ossola della prima pioniera, la femmina F31, rimasta poi senza discendenza e a otto anni dal rinvenimento del cadavere di un maschio di circa due anni, recuperato nel gennaio del 2011 sulla massicciata della ferrovia a Prata di Vogogna (e ora esposto, con altri esemplari imbalsamati, nel Castello di Vogogna).

Colgo questa occasione per riprendere alcune note storiche già pubblicate negli scorsi anni.

mercoledì 6 febbraio 2019

Pianezza di Prata a tre anni dalla sua (ri)scoperta

Sabato 6 febbraio 2016, un'attenta e preparata escursionista, Barbara Cerutti di Pallanzeno, durante una passeggiata sui monti sopra il paese di Prata, frazione del comune di Vogogna, nota al margine del piccolo nucleo rurale di Pianezza una serie di grandi pietre, fitte nel terreno, che subito le ricordano i “menhir” di Montecrestese. Invia a me e a Elena Poletti Ecclesia, archeologa, le foto scattate quel giorno.

Barbara Cerutti (a destra) ed Elena Poletti al fianco di uno dei "menhir" di Pianezza


Con Barbara ed Elena andai a Pianezza il 10 febbraio 2016, in un soleggiato pomeriggio invernale. Vi si giunge seguendo la strada consortile che sale dal fondovalle o uno dei due sentieri ancora in uso che dai paesi sottostanti s’inerpicano verso l’alto. Poche case, alcune ristrutturate, altre in abbandono, ruderi e resti di murature “a spina di pesce” (l’antico opus spicatum romano ancora in uso nel medioevo), e tutto intorno il bosco che nasconde le molte roncature, esili campicelli terrazzati che con regolarità “addolciscono” il ripido versante della montagna.
Proprio nell’ampio prato affacciato sulla piana del Toce e su alcuni terrazzi che degradano verso valle sono infissi nel terreno dei grossi monoliti apparentemente disposti con casualità, non allineati come spesso capita di vedere nel caso di sostegni per filari di vite.
L’intervento dell’uomo in questa zona, come in altre dell’Ossola, crediamo si debba far risalire all’epoca della prima colonizzazione, durante il lungo periodo in cui i versanti solatii della valle furono adattatati alle coltivazioni, quando agricoltura e pastorizia erano le attività principali dell’economia ossolana.


Gli affreschi di Pianezza (Archivio Associazione culturale Ossola Inferiore)


Per secoli Pianezza fu un centro abitato tutto l’anno, già ricordato nel 1395 in un documento riguardante la chiesa di S. Giovanni Battista di Cuzzego, il cui fabbriciere stava, per l’appunto, a “Pianezzo” di Prata. Qui la tradizione vuole che esistessero una chiesa e un cimitero, come successivamente ci raccontò Luigi Manera dell'Associazione culturale Ossola Inferiore, da noi interpellato nella speranza di rintracciare foto d’epoca del luogo e con il quale tornammo una seconda volta sui monti Pratesi. Della chiesa, intitolata a Santa Caterina, sopravvissero alcuni affreschi databili alla seconda metà del XV secolo, ora irrimediabilmente perduti, e forse un architrave contrassegnato da un’incisione alberiforme sovrastata dalle insegne dei Ferrari, famiglia di fede ghibellina: incudine, martello e tenaglia.



L'architrave inciso di Pianezza (Archivio Associazione culturale Ossola Inferiore)


Con Elena scrissi un articolo dal titolo A Pianezza di Prata: note archeologiche tra menhir e affreschi scomparsi, poi pubblicato sulla rivista Almanacco Storico Ossolano 2017.
Oggi Barbara Cerutti è tornata alla “sua” Pianezza, ai “suoi" menhir, alle “sue” coppelle. Però non ha trovato il muro “a spina di pesce”, andato perduto per sempre in un crollo accidentale o, forse, a causa di una maldestra opera di “restauro”.
Era solo un muro come tanti altri? No, con le sue pietre disposte “a spina di pesce”, ci dava un ulteriore indizio utile a datare questo complesso di edifici all'epoca medievale.
No, non era solo un muro, con gli altri resti murari denunciava l’esistenza in antico di strutture di cui nelle vedute aeree si percepisce la complessa articolazione, che solo potrebbe essere chiarita attraverso indagini archeologiche.
Chissà se un domani il gruppo di persone che ancora anima Pianezza nei fine settimana e d'estate saprà valorizzare queste testimonianze dell’antica Ossola? Io sono convinto di sì.

Il tratto muro con, al centro, le pietre disposte "a spina di pesce"

Bibliografia

F. Copiatti, E. Poletti Ecclesia, A Pianezza di Prata: note archeologiche tra menhir e affreschi scomparsi, in Almanacco Storico Ossolano 2017, pp. 173-204.
T. Bertamini, Da Cuzzego a Prata. Appunti storici, in Oscellana XXVII, n. 1 gennaio-marzo 1997, pp. 6-17.

© Fabio Copiatti

martedì 5 febbraio 2019

Nevica, buoni pensieri (e buona lettura) a tutti!

Quando nevica - e non sono in ufficio, costretto davanti a un pc - non riesco a far altro che osservare il paesaggio che s'imbianca. Osservare e pensare. La neve da sempre mi porta buoni pensieri e, di questi tempi, ne ho proprio bisogno. Da qui lo stimolo a rendere pubblico questo blog, in gestazione da anni, così da condividere con altri pensieri, racconti e frammenti di storia, editi e inediti, dedicati terre e acque lepontine, tra lago Maggiore e valli ossolane.
Buona lettura!

(foto: Via Crucis a Cossogno)

La storia di Tel, il cane dei fratelli Benzi

Un racconto di Carolina  “ Lina ”  Pirovini (1906-1991) A Cicogna c’era Tel, un bravissimo cane da caccia. Faceva parte della numerosa briga...