A Roma il 17 febbraio dell’anno del Signore 1600 un frate
domenicano viene prelevato dal carcere di Tor di Nona, dove giorni prima era
stato richiuso. Le cronache dell’epoca raccontano che «fatti chiamare due Padri
di san Domenico, due del Giesù, due della Chiesa Nuova e uno di san Girolamo, i
quali con ogni affetto et con molta dottrina mostrandoli l'error suo,
finalmente stette sempre nella sua maladetta ostinatione, aggirandosi il
cervello e l'intelletto con mille errori e vanità. E tanto perseverò nella sua
ostinatione, che da' ministri di giustitia fu condotto in Campo di Fiori,
e quivi spogliato nudo e legato a un palo fu brusciato vivo, acompagniato
sempre dalla nostra Compagnia cantando le letanie, e li confortatori sino a
l'ultimo punto confortandolo a lasciar la sua ostinatione, con la quale
finalmente finì la sua misera et infelice vita».
Questo frate rispondeva al nome di Giordano Bruno,
giustiziato per la sua concezione filosofica considerata eretica.
Palo del Supplizio in Campo de’ Fiori in una stampa del 1700. A destra s'intravvede la fontana della Terrina |
Le pubbliche esecuzioni in Campo de’ Fiori erano così
frequenti che gli avventori della Locanda del Sole lamentavano di «dover
assistere ogni giorno allo spettacolo di qualche supplizio oppure mirare nelle
vicinanze penzolare dalle forche qualche impiccato», annotava Ferdinand
Gregorovius nella sua monumentale Storia di Roma nel Medioevo. Addirittura, a
volte, la ferocia degli inquisitori non si fermava neppure davanti alla morte,
come nel caso dell’arcivescovo Marco Antonio de Dominis che, confinato in Castel Sant'Angelo; qui morì l'8 settembre 1624 prima della conclusione
del processo contro di lui. Il suo decesso, però, non fermò l'Inquisizione, che
continuò l'istruttoria: il 20 dicembre dello stesso 1624, alla presenza della
bara del De Dominis, fu pronunciata la sentenza di condanna post mortem al rogo e alla damnatio
memoriae. In sua esecuzione, il 21 dicembre il corpo fu tolto
dalla bara, trascinato lungo le strade di Roma fino a Campo de' Fiori
e qui dato alle fiamme pubblicamente con tutte le sue opere considerate
eretiche.
Le esecuzioni e le punizioni con “tratti di corda” avvenivano
vicino alla fontana che era stata realizzata pochi anni prima, nel 1590. I
“tratti di corda” erano una tortura che prevedeva il sollevamento del
condannato per i polsi legati dietro la schiena. Ai suoi piedi potevano essere
legati pesi per rendere il corpo più teso, corpo che poi veniva fatto scendere
a colpi secchi provocando spesso fratture alle articolazioni.
Già dagli inizi del ‘500, Campo de’ fiori – che fino ad
allora era stato, come lascia intendere il nome, un prato fiorito con alcuni orti – aveva assunto
un aspetto degno di piazza cittadina, divenendo un punto d’incontro per le
discussioni e gli annunci pubblici, sede di mercato e di conseguenza luogo di osterie,
attività commerciali e artigianali.
Come dicevo, vicino al “palo della corda” vi era una fontana
nella quale, nonostante gli editti, le proibizioni, le sanzioni e le punizioni
anche corporali, venivano gettati rifiuti e avanzi del mercato, utilizzandola
come fosse una pattumiera. Solo nel 1622
si riuscì a porre termine a tale malcostume coprendo la vasca ovale della
fontana con un coperchio in travertino, a cupola, che le fece assumere l'aspetto di una
gigantesca “zuppiera” (una “terrina”, appunto). Lo sconosciuto scultore autore
del coperchio pose, alla base del pomello centrale, un'iscrizione circolare: AMA
DIO E NON FALLIRE. FA DEL BENE E LASSA DIRE. MDCXXII. Secondo alcuni la scritta
valeva come una filosofica riflessione ispirata dal patibolo che sorgeva poco
distante.
Nel 1899 la fontana fu rimossa per lasciare posto alla monumentale
statua di Giordano Bruno. Nel 1924 si pensò di dotare di
nuovo la piazza della sua fontana, preferendo però porre una copia, anziché l’originale,
senza coperchio. La “terrina” originale fu recuperata e posizionata dove si
trova tuttora, nella vicina piazza della Chiesa Nuova.
L’iscrizione posta sul pomello è un proverbio diffuso in
Italia centrale, conosciuto anche per essere stato uno degli aforismi di san
Crispino da Viterbo, al secolo Pietro Fioretti (1688-1750).
Ulteriori e più approfondite ricerche mi hanno portato a scoprire
che la frase è citata in un libro del teolgo domenicano e predicatore Vincenzo
Ferrini, nato a Castelnuovo in Garfagnana nel 1534, divenuto nel 1583 vicario
generale dell'Inquisizione a Parma e morto a Venezia nel 1595. L'opera, dal
titolo Della lima universale de' vitii,
edita postuma nel 1596, è un'ampia raccolta di massime dei maggiori predicatori
del suo tempo «utilissima et necessaria a' predicatori et a curatori di anime,
et a tutti quelli che bramano estirpare da sé i vitii». Pubblicata in piena età
controriformistica, ebbe diverse edizioni nei primi decenni del XVII secolo. Si
torna quindi a toccare l’argomento eresia!
Ma qual è il legame con Cossogno, vi starete chiedendo?
Nel 1993, un giovane trentenne, si affacciava timidamente al
mondo delle riviste storiche con una breve nota dedicata ad alcune epigrafi
presenti nel suo paese, Cossogno. Una di queste è una rozza pietra, situata in
Via del Torchio e forse già impiegata come architrave (e comunque sovrastante
una porta), che reca la scritta:
AMA • DIO • NON
FALIRE • FA • PIAR • B
EN • E • LASSA • DIRE • 1585
Pochi mesi dopo, la lettura dell’ultimo libro di Nino
Chiovini, storico delle valli intrasche, originario di Ungiasca, lo porta a
scoprire che anche in questo paese, frazione del Comune di Cossogno, esiste murata
nella facciata di una casa di Via Vittorio Emanuele III una lastra
con incisa una frase quasi identica e recante la stessa data:
AMA DIO E NON FALIR
E FA PUR BEN E LAS
SA DIRE 1585
Il giovane ricercatore storico ero io. Già allora, ricordo,
m’incuriosì questo “detto popolare” presente in due località dello stesso Comune.
Pensai da subito che potesse essere un monito lasciato in occasione della
visita di qualche predicatore o importante prelato. In effetti, il 17 luglio
1585 il vicario foraneo Bernardo Ottolini visitò Cossogno e Ungiasca per conto
del Vescovo Cesare Speciano, che – non dimentichiamolo – fu tra coloro che
cercarono di estirpare le superstizioni presenti in diocesi e a tal fine il 9
maggio 1590 emanò l'editto De superstitionis evitandis, che fornisce anche informazioni sulle credenze e
sui miti diffusi fino ad allora. Le due scritte furono incise a ricordo di
questa visita pastorale?
Il fatto che la frase fosse un proverbio diffuso soprattutto
in alcune regioni dell’Italia centrale come la Toscana mi ha indotto a pensare
che potesse anche essere stata portata in terra verbanese da qualche emigrante.
Il Cardinal Taverna, nel corso della visita pastorale del 1617, rilevava che i
cossognesi «vanno talvolta nelle parti di Toschana, massime nelli paesi
d’Ascoli ove dimorano 2-3-4 anni in circa e poi se ne tornano a casa». L’emigrazione
in Centro Italia è testimoniata anche a Ungiasca, dove si racconta che
l’Oratorio dell’Addolorata (o dei Romani) sia stato costruito da operai del
paese che, reduci da lavori fatti nelle chiese di Roma, prestarono
gratuitamente la loro opera.
Purtroppo non sapremo mai chi incise, a pochi anni di
distanza (1585 e 1622), questo “detto popolare”, prima sulle due rozze lapidi cossognesi
e poi sulla celebre fontana della Terrina, nella piazza che vide morire molti
eretici e che ora è uno dei luoghi più visitati di Roma, con il suo
caratteristico mercato diurno e l’allegra movida notturna.
La prossima volta che andrete a Campo de’ Fiori soffermatevi
anche solo un attimo a osservare la statua di Giordano Bruno, pensate alle sue ultime parole
(«Forse
con più timore pronunciate la sentenza contro di me di quanto ne provi io
nell’accoglierla») e poi andate nella vicina piazza della Chiesa Nuova dove ora si trova
la Fontana della Terrina con il suo monito.
A Cossogno e Ungiasca sarà meno facile trovare le due
epigrafi, ma loro sono ancora lì, dal 1585, simbolo incancellabile del passato e del dovere della memoria.
Bibliografia
D. Antonaci, F. Copiatti,
Per un inventario epigrafico: Cossogno, in «Verbanus» 14 (1993), pp.
275-279.
D. Antonaci, F. Copiatti,
Per un inventario epigrafico: Ungiasca (Cossogno), in «Verbanus» 17 (1996), p. 433.
N. Chiovini, Le ceneri della fatica,
Vangelista, Milano, 1992, p. 158.
C. Bottini, F. Copiatti, L. Massera, Tracce di storia. Cossogno, Ungiasca,
Cicogna dalle origini al XIX secolo, 2016.
© Fabio Copiatti
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