Da ragazzo appartenevo a una famiglia dalla forte devozione mariana. Come sovente capita nelle terre ossolane e verbanesi, era nostra consuetudine recarci ogni anno al santuario della Beata Vergine del Sangue, in Valle Vigezzo. Ricordo la prima volta in cui, ancora bambino, salii a Re e ascoltai dal rettore Padre Gaspare Uccelli il racconto del miracolo avvenuto il 29 aprile 1494, quando l'immagine della Madonna, dipinta sotto il portico della chiesa parrocchiale di Re, venne colpita alla fronte da una piodella, scagliata, in un momento d’ira, da un uomo ignorante, non consapevole del gesto. In quel lontano giorno il sangue sgorgò dalla fronte di Maria. E fu miracolo, sangue che a fiotti scorse per settimane e le cui tracce si conservarono, ben visibili, per le migliaia di pellegrini che negli anni e secoli successivi accorsero implorando nuove grazie.
Al racconto di Padre Uccelli
seguiva il bacio all'ampolla di cristallo che conserva le pezzuole di stoffa
intrise del sangue miracoloso. Io, poi, mi soffermavo curioso e affascinato a
osservare le centinaia di ex voto che tappezzavano le pareti della Basilica,
scene di grazie ricevute che seguitavo a ricordare anche durante il pranzo al
sacco consumato sul prato sottostante il santuario.
Una devozione, quella per la
Madonna di Re, che dopo il miracolo si estese alle terre circostanti già all’inizio
del ’500, pochi decenni dopo il miracolo. Un esempio è dato dal
santuarietto mariano esistente in località Inoca, a Cossogno, paesi natio dei
miei avi. I rapporti tra cossognesi e vigezzini erano stati frequenti sin dal
medioevo, essendo i rispettivi territori confinanti nell’impervia Val Grande.
La notizia del miracolo di Re arrivò presto a Cossogno; si presume che la
cappella di Inoca sia stata la prima edificata nel Verbano con la
raffigurazione della Beata Vergine del Sangue.
Una mulattiera, realizzata
secondo modalità molto antiche, con muri di sostegno e selciato in pietra,
collega ancor oggi Cossogno a Cicogna, passaggio obbligato per raggiungere la
Val Vigezzo, attraverso la Val Pogallo. Il primo tratto di questa “strada di
pietra” mi è familiare fin dall’infanzia: mia madre Giuseppina Ramoni (1929-2017)
era cresciuta al curt di Miüi e, ancora negli anni ’60 del secolo
scorso, mia nonna Rachele Delsecco (1902-1995) vi tornava quasi quotidianamente
a far fieno, foglie, legna; o ancora a raccogliere mele e pere nel frutteto voluto
da mio nonno Giovanni Ramoni (1902-1943) in un runch dissodato e recintato con fatica improba proprio dove, poco
prima del corte, il sentiero si divide tra il ramo che conduce a Cicogna e
quello che sale a Miüi per poi
proseguire ad altri piccoli curt
cossognesi.
Alla raccolta autunnale di questi
frutti risalgono altri miei lontani ricordi, frutti che mio nonno non vide mai
maturare, strappato prematuramente agli affetti familiari da un tragico
incidente sul lavoro. Ma di mio nonno e del suo frutteto parlerò un’altra
volta.
Mia madre, Giuseppina Ramoni, a Miüi
Negli anni sono tornato più e più volte a Miüi, spingendomi oltre, verso Nolezzo, Chembiessín, Curt Pián e Curt d’Mitilde, oppure più in basso verso ponte Casletto o Minevè. Si partiva a piedi dall’inizio di Cossogno, dove stava la casa dei miei nonni paterni, e passato il punt vécc s’imboccava la sterrata Via Crucis che porta all’oratorio d’Inoca. Poco dopo il Crös de Noche si lasciava la strada per l’oratorio e ci si inerpicava su un bell’esempio – ora “divorato” dalla nuova strada carrozzabile – di mulattiera selciata e gradinata. Ricordo ancora la scritta “Via per Cicogna” che campeggiava sul primo fabbricato (la scritta “Via per Malesco kil. 37”, ricordata da Quintino Rossi in un opuscolo pubblicato nel 1910, ancora s’intuiva pur essendo oramai del tutto illeggibile).
Lungo il percorso la mia
attenzione era catturata da alcune cappellette che a cadenza regolare accompagnavano
il cammino. Manufatti che sopravvivono al tempo, oggi sovente malridotti, con
dipinti deturpati da scritte o soltanto trascurati, Madonne, crocifissioni e
santi che testimoniano grazie richieste e ricevute. Ancora bambino e forse con
i primi interessi per la storia delle nostre genti, mi chiedevo il perché di
tutte queste cappelle poste a poca distanza l’una dall’altra. E mia madre,
durante questi viaggi verso i luoghi della sua infanzia, mi raccontava storie e
aneddoti, come quello di quando, per andare a scuola, doveva percorrere l’ora
di cammino che separa il corte dal capoluogo:
«Ad aprile, in
prossimità della Pasqua, salivamo con le mucche a Miüi. Era ancora tempo di scuola e quindi tutti i giorni dovevo
recarmi da Miüi a Cossogno per le
lezioni. Lungo la mulattiera, se pioveva, mi riparavo sotto il portico delle
cappelle. Le chepèle del Gasc era la più bella. Era di qualcheduno,
c’è scritto sopra. Le altre no, ma quella lì sì; quella del Crös invece non aveva neanche un
dipinto, il capullín del Rüscümm aveva ’l crucifiss; anche le chepèle
del Gasc aveva il crocifisso, con un santo e la Madonna di Re ai lati. La cappella
del Gasc e quella del Cros, avevano un portic davanti per ripararsi quando pioveva e per riposarsi.
Davanti alla cappella del Gasc c’era
anche una roccia, su cui riposavano tutti. Una volta, mi ricordo, c’era un tampural,
ero sola, prima mi sono fermata alla chepèle
del Gasc, poi sopra Inoca, sotto un grosso arbul, ma mi sono ricordata che disevan
che l’era periculus, dicevano che
era pericoloso, e allora giù, di corsa, fino a Inoca. A Miüi non c’erano cappelle ma solo un dipinto
della Madonna, sulla nostra stalla; don Fighetti sovente transitava da Miüi perché andava agli Arbussei a bere l’acqua fresca, dopo il
ponte di Nolezzo, per andare a Minevè. Lì c’è una sorgente, sotto Le pezze de l’Or, dove l’acqua viene
fuori dai sassi. Don Fighetti, quando passava da Miüi, ci lasciava le immaginette sacre».
La Madonna dipinta sulla stalla di Rachele Delsecco
Già Quintino Rossi, molti anni
prima, si era interessato delle edicole devozionali presenti lungo quest’antica
via. Le descrisse in un manoscritto datato 29 settembre 1915, ora conservato nell’archivio
parrocchiale di Cossogno e dato alle stampe qualche anno più tardi (1918), poi ristampato
recentemente con il titolo “Usi e ricordi di Cossogno”. Nel proprio scritto Quintino
Rossi, sunese di nascita ma legato a Cossogno «per eredità di affetti materni»,
affronta con dovizia di particolari il tema delle “Cappelle a doppio uso sulla
via mulattiera Cossogno-Cicogna”:
«Questi
alpigiani […] dovevano percorrere una via disagevole e faticosa che tale
trovasi tuttora; e quanto occorreva e occorre, per l’esistenza della vita,
veniva come viene, trasportato su dorso personale. A rendere sollievo alla
fatica dei lunghi sette chilometri di marcia che vi sono dalla frazione al
Capoluogo, pensarono diversi benefattori, animati da spirito religioso e
generoso pensiero, facendo edificare lungo la via mulattiera, a monte, e quasi
parallela al torrente San Bernardino, dei manufatti in solida muratura che
servissero di fermata per riposo e riparo in occasione di tempi procellosi.
Queste
costruzioni in numero di quattro vennero stabilite nel tratto dei sette
chilometri di mulattiera da percorrere; la prima di esse è situata al confine
di levante di Cossogno, l’ultima a ponente sopra il ponte Caslet, sul rio Pogallo, dove ha principio la ripida salita che
dopo due chilometri arriva a Cicogna.
La ferma
osservanza alla fede religiosa degli alpigiani di allora, fu quella che
determinò alcuni benefattori a far costruire manufatti a due scomparti, il più
interno dei quali avesse a servire ad uso di Cappella, ed il davanti a
portichetto.
Così disposti
e costrutti, avevano ottenuto, oltre al vantaggio di servire come riparo, anche
quello di invitare i passanti a ricordare la loro fede religiosa anche fuori
dalla chiesa comune, esercitando la pratica esteriore della preghiera, che nel
pacifico silenzio, può venir fatta con tutto il raccoglimento.
I due scomparti hanno le
dimensioni di circa due metri di lato ciascuno, colla fronte di entrambi verso
la via, ed hanno il tetto coperto di piode.L’interno
destinato a Cappella, ha la fronte chiusa da una grande grata di legno, e il
susseguente portichetto aperto da tre lati.
Sui muri
interni delle Cappelle vennero dipinte figure di Madonne, angioli e santi, e in
qualcuna vi si introdussero dei quadri e delle immagini religiose.
Sono fornite
di un piccolo altare con relativo crocifisso e di qualche candelabro sul quale,
talvolta, vi si ardeva un moccolo, e davanti a qualche santo una fosca luce a
olio di un affumicato e leggendario lanternino.
Ivi, di
frequente, i viandanti si soffermavano, (e
ancora si soffermano) specialmente le donne con carico e senza, a
riposare, e nello stesso tempo a pregare. Che se poi si fossero trovate (e si trovassero) in maggior numero si
mettevano (come fanno ancora) a
sgranare il rosario, e ad invocare dalla Madonna e dai santi, qualche
desiderata grazia.
La parte
avanzata della Cappella formava il portichetto che serviva (e serve) per l’uso sopraccennato.
Le Cappelle
distano lungo la via un chilometro e mezzo circa l’una dall’altra e cioè in
ragione del riposo richiesto dalla persona che cammina in montagna, sia libera
o gravata di peso.[...]
L’incontestata
loro vetustà è fatta palese dal principio del loro decadimento; una di esse, la
Cappella di Miuglio [crediamo che Rossi si riferisca a quella di Mèrches, poco sotto Miuglio, ndr], non è
più riconoscibile, le altre meriterebbero, dagli eredi, o da altri dei
benefattori, o da altri generosi, la ristaurazione per conservarne la loro
utilità. Col tempo tutte cadranno, e di loro non resterà che il ricordo dello
scopo che fu, e servirono».
Il manoscritto è accompagnato da
uno schizzo di “cappella a doppio uso” e da una mappa - qui riprodotta - con
indicata l’ubicazione delle cappellette lungo la mulattiera da Cossogno a
Cicogna, comprese le due non più esistenti al corte Mèrchèés e alla Riscià Grande,
poco sopra ponte Casletto, dove il sentiero si divide tra la via per Muntüzze e la via per Cicogna. Di quella
della Riscià Grande sappiamo che nel
1782 erano ancora visibili le immagine della Beata Vergine «seduta avente sulle
ginocchia il figlio suo morto», di S. Antonio e S. Bernardo. Credo fosse molto
antica, forse affrescata dallo stesso pittore itinerante che all’inizio del ’500
ha lasciato a Pallanza, nella chiesa di S. Remigio, e a Rovegro, sulla parete esterna
di una casa e lo stesso soggetto, la Madonna della Pietà.
A Muntüzze, invece, è legata un’altra significativa testimonianza raccolta da Teresio Valsesia nel suo “Val Grande ultimo paradiso”:
«Sotto Muntüzze c’è una cappelletta. Era una
tappa obbligata per possà prima della
salita finale. Vi era dipinta la Madonna di Re: un ex voto di casa nostra,
commissionato al pitùr di Cicogna
come ringraziamento per uno scampato pericolo. Una volta mia sorella aveva
evitato per poco di essere travolta da una frana nella valle di Crusàna. Dopo la guerra don Fiora era
andato dentro a benedire il quadretto. Adesso l’hanno rubato». (Candido
Massera, classe 1919, Cossogno)
Pastori, contadini e boscaioli
erano gente semplice, timorosi degli eventi accidentali sempre in agguato lungo
i sentieri e sui monti, con il bisogno di proteggere sé stessi, i propri
animali, case e stalle dalle inspiegabili forze della natura. Il territorio andava perciò
sacralizzato, con edicole e cappelle, ma anche, ad esempio, con la posa o
l’incisione di croci e con la benedizione della campagna nel tempo delle
Rogazioni. Altra consuetudine delle genti delle valli intrasche e cannobina era
quella dei pellegrinaggi alla Marona, sulla cui cima esisteva una cappella già
nel 1434, al santuario del Boden e, ovviamente, a quello di Re.
«Quanta devozione c’era per la
Vergine del Sangue, un attaccamento incredibile», ricorda Utàvi Mellerio nel libro “Dal Santuario al territorio” (2008). «Al
Santuario di Re si andava a piedi, ognuno per conto suo. Si pregava con
trasporto, le donne soprattutto, avevano le lacrime agli occhi, più che pregare
parlavano con la Madonna, come a una di loro, a una sorella maggiore, a una
mamma». «La Madonna di Re ha sempre favorito questo atteggiamento
confidenziale» gli fa eco Rosa Bossi. «Proprio perché la sua immagine, più
sobria e materna di quella di altre Madonne, la fa sentire più vicina alle
attese delle persone semplici».
Sono questi i ricordi che mi accompagnano
in certe giornate cupe: possano essere un simbolo e un augurio affinché – per
chi ancora ne sente il bisogno - si rinnovi, immutata e corroborata, negli
antichi segni materiali delle nostre valli, la fede nella protezione celeste
della Madonna di Re per gli abitanti delle Sue terre verbanesi e ossolane.
Bibliografia
F. Copiatti, “Animati da spirito religioso e generoso pensiero”. Ricordi cossognesi di cappelle e immagini miracolose, in Monte Zeda 2010, pp. 10-11.
F. Copiatti. P.A. Ragozza, Frammenti di fede in Val Grande e dintorni, in Aa.Vv., Dal Santuario al territorio, 2008, pp. 39-51.
B. Mazzi, Una compagna di viaggio, in Aa.Vv., Dal Santuario al territorio, 2008, pp. 33-37.
G.V. Moro, Due nuovi affreschi cinquecenteschi a Rovegro (San Bernardino Verbano), in Vallintrasche 2013, pp. 7-11.
Q. Rossi, Cappelle a doppio uso sulla via mulattiera Cossogno-Cicogna, in Usi e ricordi di Cossogno, 1918 (rist. 2005), p. 17-19.
T. Valsesia, Val Grande ultimo paradiso, 1985 (e successive ristampe), p. 116.
Sempre molto bello leggere i tuoi scritti, oltretutto scopro nuovi nomi di località del posto, interessante e istruttivo.
RispondiEliminaGrazie Maya. Ammetto di non essere avvezzo a questo mezzo di comunicazione - il blog - ma cerco di fare del mio meglio...
Elimina