giovedì 31 dicembre 2020

Sulle tracce di Rosina

Rosina procede con passo regolare, apparentemente senza fatica, nonostante il pesante carico.
La immagino, quasi la seguo con lo sguardo, mentre s’allontana da Colloro, il suo villaggio, un centinaio di case rustiche e grezze come la pietra e il legno con cui sono costruite.
Il paese è adagiato su un pianoro assolato che domina la bassa valle della Toce. Tutt’attorno, dove il versante degrada, chilometri di muri a secco disegnano un paesaggio di terrazzi coltivati, prati e castagneti.
Da qui si sale, verso i monti al confine tra Ossola e Val Grande, in cammino tra alpeggi disseminati in boschi e pascoli, utili solo a sopravvivere.
Rosina è una contadina poco più che ventenne, dal corpo robusto ma aggraziato, nascosto nell’ingombrante veste. La indossa con disarmante naturalezza senza che sia da ostacolo al suo progredire lungo ripidi e tortuosi sentieri.
Nel gerlo che grava sulle spalle, oltre alle vettovaglie che lascerà all’alpe, hanno trovato spazio anche i viveri di chi le pagherà la giornata. 
Quattro alpinisti milanesi la seguono silenziosi, ma fiduciosi nel fatto che questa volta la meta sarà raggiunta, dopo il precedente fallito tentativo. Osservo anche loro, per niente a disagio su questi scabri e scoscesi sentieri, avvezzi a ben altre ascensioni.
Rosina è una portatrice di fine Ottocento, così erano chiamate le alpigiane disponibili ad accompagnare i soci CAI nelle loro gite alpine… ma è anche la compagna di questa mia escursione, prima immaginata, poi desiderata e infine negata da questa tragica e interminabile pandemia. 

La Colma di Premosello. Al centro la Cima della Rossola

venerdì 18 dicembre 2020

La vecchia del bosco. Leggenda di Natale

Alcuni secoli fa, quando Pallanza era ancora un umile borgo di pescatori, abitava sulla Castagnola, in una casa tanto piccola da sembrare fatta su misura per gli gnomi, una vecchierella tutta ossa e grinze, curva sotto il peso di cento o forse più primavere.

Povera Ninì, olio su tela di Arnaldo Ferraguti, 1887, collezione privata

lunedì 12 ottobre 2020

Sofia e la grande nevicata del 1888

Aveva iniziato a nevicare la sera del 14 febbraio, proseguendo nei giorni successivi con alterna intensità.
Poi un mattino la sorpresa. Erano bastate le poche ore di una notte e Cicogna si trovò sommersa da un metro e mezzo di neve.
Neppure i vecchi del paese ricordavano una nevicata come quella. Le vie interne dell’abitato sembravano gallerie scavate nel ghiaccio, entro cui la neve accumulatasi sui tetti minacciava di seppellirli.
Con un peso così enorme che gravitava su case e stalle, paura e ansia pervasero uomini e donne, giovani e anziani. Non solo per l’incolumità di ciascuno di loro, ma anche per quella del bestiame.



lunedì 29 giugno 2020

"Lo vidi saltare sul posteriore di una vacca al pascolo": la presenza storica dell'orso tra Verbano e Ossola

L’orso sembra essere tornato sui monti delle Valli Intrasche. Dalla destra orografica dell’Ossola, dove le segnalazioni sono documentate così come i danni fatti alle arnie di alcuni apicoltori, potrebbe aver attraversato la valle e aver trovato rifugio sui monti tra la Val Pogallo e la Valle del San Giovanni.
Sono in corso da parte della Polizia Provinciale e dei Carabinieri Forestali le dovute verifiche relative agli avvistamenti avvenuti nella piazza di Gonte, comune di Oggebbio, e al Pian Vadà, dove un pastore, trovata una sua capra sbranata, nella nebbia avrebbe visto materializzarsi la sagoma inconfondibile del grosso plantigrado.

martedì 5 maggio 2020

"Balconi fioriti": dal 1912 una festa originale a Caprezzo


La tradizione florovivaistica verbanese è conosciuta in tutto il mondo e risale al XIX secolo. Il terreno e il clima unico di questa zona tra Lago Maggiore e monti, l’esperienza di ormai due secoli di coltivazione e l’amore per i fiori da parte di tante aziende e giardinieri impegnati a mantenere parchi e giardini pubblici e privati, alimentano bellezza, turismo ed economia.
L’amore per i fiori, nel 1912, contagiò anche un paese della Valle Intrasca, Caprezzo, che inaugurò – credo primo in tutto il Verbano – l’iniziativa “balconi fioriti”.

Una delle cartoline floreali in vendita a Caprezzo nel secolo scorso

In Francia ma anche in Italia, già tra fine Ottocento e inizio Novecento, concorsi dedicati ai “Balconi fioriti” si diffusero rapidamente, soprattutto nelle grandi città come Parigi o in località di villeggiatura come Sanremo e Viareggio.
A Caprezzo questa fu una proposta che si mantenne almeno fino al 1933, come riportato anche sul giornale La Gazzetta: «L’iniziativa dei balconi fioriti. Il senso di gentilezza del nostro popolo appare anche dalla cura con cui molte famiglie coltivano i fiori e li espongono ai balconi abbellendo così insieme e le loro case ed il paese. In questi giorni abbiamo avuto modo di ammirarne alcuni veramente graziosi di questi balconi adorni di gerani in fiore e di garofani o di piante sempreverdi. Lodevole iniziativa questa che piace ai molti turisti, specialmente stranieri, che visitano il nostro borgo, se molti dei quali vollero esprimerci la loro ammirazione per questo culto che dei fiori e del bello hanno molti tra noi. Esortiamo quindi tutti coloro che hanno la fortuna di possedere dei balconi a volerli ornare con fiori: si tratta di un ornamento che costa molto poco e che dà in compenso degli ottimi risultali estetici».

Festa a Caprezzo. Tra loro, forse, anche Cleofe Pellegrini
(archivio Rinaldo Pellegrini, Caprezzo)


Tutto ebbe inizio, come detto, nel 1912. Ecco la cronaca apparsa sulla rivista “Verbania”, in cui troviamo anche citata una donna di origini caprezzesi, Maria Cleofe Pellegrini, ricordata a livello nazionale, e non solo, per i tanti suoi meriti nel campo dell'educazione e dell'emancipazione.

sabato 28 marzo 2020

«A proposito della malattia corrente»: l’influenza “spagnola” del 1918-1919 sui giornali locali verbanesi. Parte quinta

A zia Ada, giovane vittima della "spagnola"



Nei mesi di novembre e dicembre del 1918 sui giornali le notizie relative all’influenza trovarono meno spazio. La fine della Grande Guerra riempì le pagine dei settimanali di Intra e Pallanza con articoli dedicati alla vittoria delle forze Alleate e ai tantissimi caduti sul fronte o deceduti negli ospedali militari.
L’elenco delle vittime della “Grippe espagnole” però era sempre lungo, nonostante il rallentamento del contagio: quest’altra guerra che le nazioni di tutto il mondo stavano combattendo ancora non era vinta.

Pubblicità di uno sciroppo proposto nella cura dell'influenza spagnola

mercoledì 18 marzo 2020

«A proposito della malattia corrente»: l’influenza “spagnola” del 1918-1919 sui giornali locali verbanesi. Parte quarta

A zia Ada, giovane vittima della "spagnola"




In quei mesi di fine anno, anche i paesi dell’entroterra verbanese si trovarono a combattere, pressoché disarmati, contro la “spagnola”. Quasi ovunque i decessi raddoppiarono, concentrati nel periodo fra l’ottobre del 1918 e il gennaio del 1919. Solo nel 1920 si ritornò ai livelli del 1917.
Nei cimiteri delle valli intrasche è facile vedere lapidi posate a memoria di persone, il più delle volte giovani, morte in quei mesi a causa del “morbo fatale”. Soffermarsi al loro cospetto e leggerne le epigrafi, contribuisce a toglierle dall’oblio e dal silenzio.



Cimitero di Intragna: lapidi funerarie sfidano l'oblio e il silenzio

domenica 15 marzo 2020

«A proposito della malattia corrente»: l’influenza “spagnola” del 1918-1919 sui giornali locali verbanesi. Parte terza

A zia Ada, giovane vittima della "spagnola"




Il mese di ottobre si avviava alla conclusione e le abitudini quotidiane delle persone erano ormai stravolte dall’influenza che non dava segno di attenuazione.
Tutti i giornali del mondo, anche quelli locali, iniziarono a tenere aggiornati i propri lettori, alcuni non nascondendo la gravità della situazione, altri cercando di non creare allarmismo, ma al tempo stesso dando informazioni utili e raccomandando di attenersi a quanto disposto dalle autorità, anche perché - allora come oggi - c’era chi diffondeva “notizie fantastiche” (oggi le chiamiamo “fake news”):

«L’influenza, come in tutti i paesi d’Italia ha battuto purtroppo anche alle porte delle nostre case, ma per fortuna in forma benigna. Se si eccettuano infatti i casi in cui la resistenza dell’ammalato era assai ridotta per precedenti scosse o vecchiaia, possiamo ben dire che l’esito letale fu rarissimo. Da questa premessa intendiamo subito trarre una raccomandazione perché siano evitati degli ingiustificati allarmi mentre d’altra parte non si devono trascurare quelle norme speciali che ben osservate scongiureranno ogni pericolo, o ad ogni modo lo renderanno più leggero.
Ben a ragione quindi potremo ripetere per noi quanto il Corriere della Sera di giovedì scorso ha scritto: “C’è poi una forma di disfattismo che si compiace di seminare notizie fantastiche, che esagera e generalizza casi particolari e di carattere affatto accidentale, alimentando il terrore delle classi meno colte. Contro questo disfattismo bisogna pure reagire ed essere senza pietà.
C’è un’altra tendenza che non va incoraggiata, ed è quella dei critici per amor dell’arte o di facile pubblicità, che suggeriscono provvedimenti a dritta e a manca e ti lanciano giudizi senza alcun senso della realtà, concorrendo così ad accrescere la confusione ed a sminuire la fiducia nelle autorità, in un momento in cui questo proprio non è necessario”». [Il Giornale di Pallanza del 20 ottobre 1918]



Prima pagina del quotidiano francese Excelsior: "I Londinesi indossano delle maschere
per proteggersi dall'influenza spagnola"

Ormai era chiaro quali fossero le modalità di trasmissione del virus, quali fossero i sintomi e quali le conseguenze. Fu proprio nel 1918 che anche i cittadini comuni iniziarono a indossare le mascherine per diminuire il pericolo di contagio:

«La malattia che attualmente infierisce e che venne denominata “grippe spagnola" non è che l’influenza del 1889-90, cioè una malattia conosciuta da secoli e che generalmente fa la sua apparizione due o tre volte ogni cento anni. Sua caratteristica essenziale e d’essere contagiosa al massimo grado e di trasmettersi con estrema rapidità da una regione ad un’altra; di qui il nome datole di pandemia, per significare che colpisce non solo un popolo, o parte di un popolo, ma l’intera umanità. Fra i disturbi provocati dalla malattia nella sua attuale recrudescenza, occorre innanzitutto menzionare la febbre, il cui andamento contribuisce in buona parte a dare al morbo la sua fisonomia speciale.
In generale la febbre d’influenza debutta bruscamente raggiungendo di colpo 30-40 gradi per poi ridiscendere rapidamente in due o tre giorni. Quelli più importanti però, perché più gravi nelle conseguenze, sono i disturbi che colpiscono le vie respiratorie: naso, laringe, trachea, bronchi e polmoni. La bronchite e la polmonite sono infatti le complicazioni che hanno soventi esito fatale. […] Sembra oramai assodato che il germe della malattia sia un microbo determinato cui servano da veicolo particelle microscopiche di mucosità espulse con sternuto, tosse, od anche semplicemente parlando concitatamente; per conseguenza, sebbene il numero immenso dei colpiti dimostri l’impotenza di prevenirla, si potrà nondimeno sperare in qualche buon risultato evitando assolutamente le riunioni numerose e specialmente di avvicinare individui convalescenti od ammalati, i quali ultimi dovrebbero possibilmente venire isolati». [La Vedetta, 26 ottobre 1918]


Volontarie della Croce Rossa di Boston assemblano mascherine (fonte: archivio nazionale USA)

Le misure di prevenzione diventavano con il passare dei giorni sempre più severe:

«Chiusura dei Cimiteri. Per misure sanitarie, i Cimiteri saranno tenuti chiusi nei giorni 1, 2 e 3 Novembre prossimo. In via eccezionale, ed a parziale modificazione del Decreto già pubblicato è permesso fino a mezzogiorno del 1. novembre alle famiglie di mandare un incaricato a deporre fiori e corone sulle tombe dei loro cari». [La Vedetta, 26 ottobre 1918]

«L’influenza. Il Sindaco, in osservanza a recenti circolari Prefettizie, ritenuta 1’opportunità di più rigorose norme profilattiche e igieniche, ha pubblicato questo nuovo avviso:
1) è sospeso fino a nuovo avviso il suono delle campane per i trasporti funebri e per l’accompagnamento del viatico.
2) agli accompagnamenti funebri non devono prendere parte se non i parenti, evitando qualsiasi forma di corteo.
I trasgressori saranno puniti a norma di legge.
N.d.R. - Tutti questi provvedimenti sono ottimi ma pur troppo vediamo che pochi sono i cittadini che sentono il dovere di rispettarli. Prevale nei più il sentimento di affetto verso i poveri defunti e non si vuole trascurare l’estremo tributo che si manifesta col seguirne i funebri. Belle cose anche queste, ma negli attuali momenti e coi gravi pericoli che incombono sulla salute pubblica, ìl sentimento si trasforma in incoscienza». [Il Giornale di Pallanza, 27 ottobre 1918]

Anche nel Verbano, purtroppo, contagi e decessi aumentavano in modo esponenziale:

«Nota Mesta. Pur nel decrescere il morbo fatale miete fra le nostre famiglie implacabilmente. Ogni nome di defunti in questo periodo ricorda una storia di speranze troncate, di famiglie in cui vuoti inopinati non potranno più essere colmi di miserie pietose che, purtroppo, la parca ha lasciato dietro di sé. A tutti i provati la parola della solidarietà umana, del cristiano conforto». [La Vedetta, 1 novembre 1918]

Il pensiero di tutti andava ai morti, ma anche ai sofferenti:

«L’orologio Municipale. Mai come ora una parte rispettabile della cittadinanza ha sentita la nostalgia dei rintocchi dell’orologio Municipale. Sono specialmente gli ammalati 'spagnuoli' per i quali le notti sono eterne se non ne scanda le ore l’argentina voce amica. I nostri vecchi solevano dire: “Che cosa serve aver la serva se la serva poi non serve?” Noi chiediamo se non sia giunto il momento di provvedere ad un servizio pubblico più importante di quanto può sembrare».
[La Vedetta, 1 novembre 1918]


L'Ospedale di Intra (fonte: archivio G.B. De Lorenzi Finocchiaro, Verbania Antiche Immagini)

Medici e infermieri erano in prima linea, ma ciò non era ovviamente sufficiente. Serviva aiuto nella cura degli ammalati:

«Lodi meritate. In una sua recente circolare il Monsignor Vescovo di Novara scriveva: “Ho visto, or non è molto, con grande piacere i parroci e i sacerdoti prestarsi con zelo e carità edificante per assistere gli ammalati delle parrocchie vicine, che mancavano di sacerdoti o non ne avevano sufficienti al bisogno”.
I membri del clero, cui era indirizzata la lettera, leggendo il brano pensarono subito a un canonico della Collegiata di S. Vittore. Quando nel settembre scorso il morbo infieriva a Gravellona, dove mieté fra le sue vittime anche un sacerdote e un medico, la Curia Novarese telegrafò al canonico intrese di portarsi in quel centro a coadiuvare il reggente della parrocchia.
L’invito fu raccolto, e manco a dirlo, il designato si trovò immantinente sul posto a confortare col suo ministero i morenti, riempiendone l’anima di luce e speranza, a incoraggiare i colpiti, a compiere insomma tutte le parti di pastore sollecito, meritandosi l’encomio del Capo della diocesi, accorso a visitare l’addolorato paese. E non si allontanò se non quando il pericolo era spento. Anzi vi fece più tardi altre capatine per prestare i suoi servigi; in una delle quali gli capitò un caso che illustra, come sprazzo di luce, il suo profilo spirituale. Vale la pena di ricordarlo. Arrivato a notte fatta, egli bussa discretamente alla canonica; e giacché nessuno ha avvertito i colpi e le chiamate, egli s’acconcia a passar la notte seduto sullo scalino d’accesso, col capo appoggiato allo stipite, aspettandovi fra un pisolino e l’altro l’Ave Maria mattutina.
II lettore converrà che in ottobre l'avventura è meno piacevole che in agosto o in luglio. Ciò non impedì punto che il cav. don Fr. Gagioli (tutti avranno capito che si tratta di lui) sbrigasse al mattino le sue incombenze d’ufficio come se avesse dormito su un materasso di piume in una tepida stanza». [La Vedetta del 1 novembre 1918]

E quando l’opera dell’uomo sembrava non bastare, non restava che rivolgersi ai Santi che già in tempo di pestilenze avevano soccorso il popolo di Dio:

«Triduo di propiziazione. Lunedì verrà incominciato nell’oratorio di S. Rocco, attorno al quale si intrecciano memorie storiche di voti e preghiere in tempi di calamità, dovendo la sua origine precisamente da un’epoca di pubblico disagio, un triduo di propiziazione, per iniziativa di devoti. Verrà celebrato la messa alla mattina ed impartita la benedizione alla sera». [La Vedetta del 1 novembre 1918]



Oratorio di S. Rocco a Intra (fonte: archivio F. Copiatti)

venerdì 13 marzo 2020

«A proposito della malattia corrente»: l’influenza “spagnola” del 1918-1919 sui giornali locali verbanesi. Parte seconda

A zia Ada, giovane vittima della "spagnola"




Già nei primi giorni di ottobre era ormai chiaro che la situazione peggiorava di ora in ora. La "spagnola" si stava diffondendo sempre più, mieteva vittime e terrorizzava i cittadini.

La Stampa di Torino dell’8 ottobre scriveva:

«Il termometro dell’influenza. La quotidiana lista delle Stato Civile, che con le nascite ed i pochi matrimoni reca i nomi e il numero dei morti in città nelle 24 ore precedenti, gode purtroppo, da qualche tempo, nei giornali cittadini, di un’attualità inconsueta. E' divenuta un po’ come l’articolo di fondo. Tutti lo cercano, tutti lo leggono, tutti lo commentano. E oggi quanti morti? Ah, più di ieri! Morti d’influenza è sottinteso. Perché è impossibile morire altrimenti al giorno d’oggi».


Copyright © 2018 National Library of Medicine/Science Photo Library 

giovedì 12 marzo 2020

«A proposito della malattia corrente»: l’influenza “spagnola” del 1918-1919 sui giornali locali verbanesi. Parte Prima

A zia Ada, giovane vittima della "spagnola"


La cosiddetta “Spagnola”, altrimenti conosciuta come la grande influenza o epidemia spagnola o grippe, fu una pandemia influenzale, insolitamente mortale, che fra il 1918 e il 1920 uccise decine di milioni di persone nel mondo. Fu la prima delle due pandemie che coinvolgono il virus H1N1, di probabile origine aviaria, completamente nuovo per la popolazione umana, che quindi non aveva difese nei suoi confronti.
Si stima che arrivò a infettare circa 500 milioni di persone in tutto il mondo, inclusi alcuni abitanti di remote isole dell’Oceano Pacifico e del Mar Glaciale Artico, provocando il decesso di 50-100 milioni su una popolazione mondiale di circa 2 miliardi. In Italia i morti furono 600.000, pari al numero di soldati morti durante la guerra del 1915-18. La letalità le valse la definizione di più grave forma di influenza pandemica della storia dell’umanità. Si calcola che a morire per via della "Spagnola" fu tra il 3 e il 6 percento della popolazione mondiale, come se oggi morissero 480 milioni di persone, causò infatti più vittime della terribile peste nera del XIV secolo.
Non è ancora chiara la sua origine, ma sicuramente per la sua diffusione fu determinante la Grande Guerra in corso in Europa, che vedeva coinvolte anche molte altre Nazioni mondiali, Stati Uniti compresi.
Le potenze dell’Intesa (Gran Bretagna, Francia e Russia) vollero chiamarla “influenza spagnola”, principalmente perché la pandemia ricevette maggiore attenzione da parte della stampa solo dopo aver raggiunto, nell’autunno del 1918, la Spagna, una nazione non coinvolta nel conflitto e in cui non vigeva la censura di guerra.


1918. Il manovratore di un tram di Seattle non accetta a bordo passeggeri sprovvisti di maschera.
Uno spazzino di New York indossa una maschera (fonte: Wikipedia)

venerdì 28 febbraio 2020

«A 72 raggiungeva l'aspra cima della Zeda»: Carlo De Notaris, pittore e alpinista verbanese

Nell’agosto del 1876 tre uomini lasciavano Milano per raggiungere, attraverso la Val d’Ossola, il piccolo paese di Zermatt, nello svizzero Canton Vallese. Non era la prima volta che compivano questo viaggio. Già cinque anni prima, sempre in agosto, avevano visitato Zermatt, Ginevra, Berna e Interlaken, per poi fare ritorno a Milano transitando da Pallanza, sul lago Maggiore, come raccontarono nel manoscritto Memorie di un viaggio in Svizzera fatto nell'agosto 1871.
Ora invece si apprestavano ad una difficile quanto avventurosa scalata: quella del monte Cervino. Il primato a cui tendevano non consisteva nella conquista di una vetta inviolata o nell’apertura di una nuova via, bensì, per il “maggiore” tra loro, nell’essere, all’età di 64 anni, l’alpinista più anziano mai salito sul Cervino.
L’impresa riuscì e non sembra aver lasciato fatiche nel fisico dei tre alpinisti, visto che fu seguita nei giorni successivi dalla scalata del Monte Rosa con discesa a Macugnaga.

Pagina tratta da "L. Stefano De Notaris, Note del mio viaggio circolare in Italia, manoscritto datato 30 novembre 1873"

domenica 26 gennaio 2020

Guai a chi dimentica! L'orrore dei Lager nazisti nella testimonianza di un reduce

Nel 1948 il giornale "Risveglio ossolano" pubblica una lettera inviata da un medico alla giovane sorella di un suo amico. Chi firma la missiva, tale "Dr. Jean della resistenza", è Giovanni Aliberti, classe 1916, torinese di nascita, antifascista della prima ora, partigiano. L'amico è Arturo Belgrando, classe 1900, nato a Demonte, provincia di Cuneo, anch'egli partigiano.
Il documento risale probabilmente a due anni prima, da quel che risulta negli archivi della Fondazione Istituto torinese Antonio Gramsci dove è conservata una missiva così catalogata: "Gentile signorina Beltrando, Le chiedo anzitutto scusa del ritardo nel risponderle...: Rosenhugel - Davos-Platz (Suisse), 17 août 1946 / Giovanni Aliberti, 1946. - 14 p. (cfr.: 1, 36)".
Cosa accomuna questi due uomini? La lotta partigiana e la deportazione nei campi di concentramento nazisti. Il destino non è però lo stesso: Arturo muore a pochi giorni dalla Liberazione, Giovanni riesce a sopravvivere. Il 13 luglio 1945 è trasportato in Francia. Qui è assistito e curato per sei mesi e fornisce documentazione alla Commissione interalleata per i crimini di guerra di Parigi. Ritornato in Italia il 1° gennaio 1946, è presto costretto a trasferirsi in Svizzera per nuove cure.
All'inizio del 1949 il medico rientra definitivamente in Italia e riprende la sua attività professionale. Forse dalla vicina Svizzera, nell'immediato dopoguerra il Dr. Jean, invia al Risveglio altri scritti a tema scientifico. Inoltre partecipa attivamente ad iniziative di beneficienza rivolte alla popolazione ossolana. Aliberti muore nel 1985.
In occasione del Giorno della Memoria, vi propongo integralmente la lunga lettera da lui scritta alla sorella di Arturo Belgrando. Non serve dire altro. Ogni commento sarebbe superfluo. Leggere, non dimenticare e vigilare, solo questo possiamo fare, affinché certi orrori non abbiano a ripetersi.
F.C.

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Guai a chi dimentica!

Non è bene ricordare il male patito, perché l’esistenza ne resta imbevuta di rancore; ma è delitto dimenticare le sofferenze di chi ha sacrificato libertà, salute e gioventù per salvarci da quegli obbrobri che non si devono assolutamente ripetere.
Chi meglio può dircelo di un deportato, reduce dall’inferno della civiltà nazifascista, genio di crudeltà e di infamie?
È lui, medico, che scrive per assolvere al più doloroso compito, quello di partecipare «il martirio» di un compagno, non tornato, ai suoi cari.


L'ingresso al Lager di Mauthausen

venerdì 24 gennaio 2020

L’Uomo selvatico ossolano a Dresio per il Carnevale di Vogogna del 1914

Nel novembre del 2018 veniva messo on line il sito internet di Comuniterrae, progetto culturale partecipato di valorizzazione del patrimonio materiale e immateriale delle "terre di mezzo" di dieci Comuni dell'Ossola e della Valle Intrasca, promosso dal Parco Nazionale Val Grande e Ars.Uni.Vco, contenente anche un archivio di fotografie storiche recuperate e condivise dalle comunità coinvolte.
È stato nello “sfogliare” questa ricca e interessante raccolta di immagini che la mia attenzione è stata attirata da una foto che immortala tre personaggi di un carnevale ossolano, per la precisione scattata a Dresio di Vogogna nel 1914, due dei quali mascherati da quello che a mio avviso poteva rappresentare il leggendario Uomo selvatico delle Alpi.

Dresio, 1914. Sfilata carnevalesca.
A ridosso dei teli bianchi le due maschere rappresentanti l'Uomo selvatico
(foto archivio Roberto Baga, g.c.)


La storia di Tel, il cane dei fratelli Benzi

Un racconto di Carolina  “ Lina ”  Pirovini (1906-1991) A Cicogna c’era Tel, un bravissimo cane da caccia. Faceva parte della numerosa briga...