lunedì 12 ottobre 2020

Sofia e la grande nevicata del 1888

Aveva iniziato a nevicare la sera del 14 febbraio, proseguendo nei giorni successivi con alterna intensità.
Poi un mattino la sorpresa. Erano bastate le poche ore di una notte e Cicogna si trovò sommersa da un metro e mezzo di neve.
Neppure i vecchi del paese ricordavano una nevicata come quella. Le vie interne dell’abitato sembravano gallerie scavate nel ghiaccio, entro cui la neve accumulatasi sui tetti minacciava di seppellirli.
Con un peso così enorme che gravitava su case e stalle, paura e ansia pervasero uomini e donne, giovani e anziani. Non solo per l’incolumità di ciascuno di loro, ma anche per quella del bestiame.




Qualcuno, mercoledì 22 febbraio, sfidando le insidie di neve, ghiaccio, alberi e rami caduti o cadenti, tra mille peripezie scese verso Cossogno foriero di cattive notizie. Doveva chiedere soccorso e denunciare la morte della giovane Sofia, figlia di Fedele Crivelli e Carolina Podico, contadini, avvenuta due giorni prima, alle ore pomeridiane 2 e venti minuti, come attestò scrupolosamente il sindaco Andrea Pagani di fronte al messo comunale e ai testimoni.
Era malata da giorni, la tredicenne Sofia, febbricitante. I genitori avevano chiesto aiuto al parroco don Giovanni Benzi. Non sapevano cosa fare, come curarla, in quella povera casa così lontana dalla civiltà. E se si fossero ammalati anche gli altri figli più piccoli, Antonio di dieci anni, Giovanni di otto, Delfina di quattro, Luigi di tre e l’ultimogenito, Ambrogio, nato l’anno prima, nel 1887? O loro stessi?
Già il primogenito, Siro, venuto alla luce nel 1874, era vissuto solo il tempo di un tramonto e un’alba. In casa era lei l’unico aiuto per la madre, già avvezza ad accudire il bestiame e a percorrere i sentieri di montagna con il gerlo carico sulle spalle.
Sofia, in quel giorno di metà febbraio, percorse in una cassa di legno il breve tratto di strada tra la casa e la chiesa nel bianco candore della neve.
Tutti i terrazzani si assieparono nel piccolo tempio, pregando per lei ma anche per loro stessi, ormai consci del fatto che l’isolamento sarebbe durato a lungo e che il loro destino era nelle mani di Dio. O almeno, così diceva don Giovanni durante i suoi sermoni tenuti in dialetto, per farsi meglio comprendere dai parrocchiani, usando efficaci similitudini: «La divina provvidenza l’è tamme la crave ch’la caghe d’lé culmègne d’un tècc: i cagarètt i vann dappartütt», aveva spiegato una volta.
Non c’era quindi nulla da temere, qualche preghiera in più alla Madonna di Caravaggio e il sole sarebbe tornato a splendere. Ma intanto la neve continuava a scendere copiosa.


«Cicogna. I danni della neve». Con questo titolo La Voce del Lago Maggiore di martedì 28 febbraio riportò le notizie giunte dal paese: «In questa frazione che supera per altezza tutti gli abitati della valle la neve raggiunse i due metri. Quando cominciò a nevicare, stavano nei dintorni pascolando cento ottanta capre che furono tutte sepolte qua e là, sotto la neve. E si sa che non possono vivere senza cibo oltre tre giorni! Le bestie bovine tenute in paese hanno scarsissimo fieno sicché qualche proprietario viene costretto a macellarle. Né mancano i terrazzani ammalati che il medico non può recarsi a visitare per quelle strade impraticabili. E si temono altre disgrazie nelle vicinanze per le valanghe che possono formarsi, e precipitare a valle! e qui e altrove!».
Si cercò di sgombrare la mulattiera per Cossogno, inutilmente. Troppo rischioso, soprattutto nei pressi di ponte Casletto, dove le pareti precipitano verticali nel greto del fiume.
Quante volte negli anni precedenti si erano lamentati con il Comune per la pericolosità della strada! Addirittura, nell’ottobre del 1879, don Benzi aveva rischiato la vita cadendo in un burrone e il fatto aveva occupato le cronache dei giornali locali.
Ora, anche questa copiosa nevicata e il prolungato isolamento contribuivano a ravvivare malumori mai sopiti.
I giorni passavano e le scorte alimentari iniziavano a scarseggiare, bisognava intervenire: «Del paesello di Cicogna non si avevano notizie da oltre 12 giorni. Per cura dei terrieri di Cossogno, si fece la cala, e si riuscì lunedì scorso attraverso la gran neve, a liberare quei poveri sequestrati», scrisse La Vedetta il 3 di marzo. Fare la cala consisteva nell’aprire il sentiero verso la frazione e andare in loro soccorso. Finalmente, approfittando di una tregua del maltempo, una squadra di volenterosi partì dal capoluogo. Metro dopo metro raggiunsero la Cappella del Gasc. Poco oltre, tra stupore e sollievo, videro in lontananza un gruppo di uomini avanzare verso Cossogno. Partiti la sera prima, approfittando della luna piena che avrebbe illuminato la via e dopo una notte di lavoro e cammino, un drappello di cicognesi erano ormai quasi giunti alla meta.
Con le provviste tornarono a Cicogna anche i giornali. Pochi sapevano leggere: il parroco e i tre fratelli Benzi, Giacomo e Felice, cacciatori e guide alpine, e Pietro, l’oste del paese.
Si venne così a sapere che nelle valli ossolane e in Val Strona – ma anche in tutto il Piemonte – la devastazione era ovunque.


Crolli di tetti e valanghe avevano seminato distruzione e morte: villaggi e alpeggi distrutti, intere famiglie sorprese nel sonno e sepolte sotto la neve. Campello Monti era isolato da 15 giorni. A Bugliaga di Trasquera la tragedia più grande, trenta casolari travolti e decine di vittime. Notevoli anche le perdite tra il bestiame, ulteriore sciagura per chi di pastorizia sopravviveva.
Il sole tornò a illuminare Cicogna solo ai primi di marzo. La coltre bianca e accecante nascondeva boschi, rocce, alpeggi. Tracce di rovinose valanghe facevano temere il peggio per le numerose stalle e casere che fino a due settimane prima ancora popolavano i versanti della Val Pogallo.
La neve aveva raggiunto i 2 metri e 15 centimetri, ma c’era chi l’aveva misurata giornalmente, mano a mano che scendeva dal cielo e prima che si facesse compatta, e disse che ne era caduta fino a 3 metri e 60 centimetri.
La primavera era alle porte, la vita riprese così il suo corso anche a Cicogna.
Fedele e Carolina Crivelli l’anno successivo, nonostante la non più giovane età di lei, 42 anni, misero al mondo un’altra figlia alla quale fu dato il nome di Sofia, a ricordo della sorella. Un nome che non le portò fortuna. Morì ventun giorni dopo, l’11 dicembre 1889. Era come se fosse stata rapita una seconda volta a chi l’amava.
Un nuovo morbo crudele era arrivato in Italia, forse dalla Russia. Il padre morì un mese dopo, il 14 gennaio 1890, all’età di 44 anni.
Tre giorni prima don Giovanni Benzi aveva letto su La Vedetta dell’11 gennaio: «Valle Intrasca. L’influenza - La malattia profanamente cosi chiamata è comparsa anche fra noi. Questa fastidiosissima se non mortale malattia, ha invaso ormai tutta Europa. V’è dunque a temere molto, che venga fra noi come altre volte vi fu. Il preservativo è quello di trovarsi forti e robusti».
Fedele Crivelli la forza di vivere l’aveva perduta l’11 dicembre.

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Racconto classificatosi primo al Premio letterario internazionale "Salviamo la montagna" Andrea Testore-Plinio Martini, sezione Narrativa.

Una versione ampliata del racconto è stata pubblicata in Fabio Copiatti, Cicogna ultima Thule, MonteRosa edizioni, 2020.
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Fonti

La Voce del Lago Maggiore, 28 febbraio 1888
La Vedetta, 3 marzo 1888
La Voce del Lago Maggiore, 6 marzo 1888
La Vedetta, 11 gennaio 1890
Archivio di Stato Verbania, Registri Stato civile italiano
N. Chiovini, A piedi nudi. Una storia di Vallintrasca, Vangelista 1988 e Tararà 2004.

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