Nello scorso fine settimana ho visitato la mostra Intrecci.
Passato e presente della cesteria nelle Terre di Mezzo, allestita in
occasione dell’annuale appuntamento che si tiene a Verbania Pallanza per
celebrare le colorate e profumate camelie primaverili, vanto della floricoltura
verbanese.
Come ho già avuto modo di
sottolineare in altre sedi, questi «intrecci di passato e presente, di immagini
e storia, di materiale e immateriale» hanno riscosso gradimento nel numeroso
pubblico che nei due giorni ha riempito le sale della storica e fascinosa Villa Giulia. A chi non avesse
avuto la possibilità di visitarla, segnalo che la mostra sarà ospitata dal 19
al 22 aprile presso il Museo Tattile di Scienze Naturali del Lago e della
Montagna a Trarego Viggiona all'interno della manifestazione Sentiero d'Arte
2019.
Ad una delle foto esposte sono particolarmente legato. Ricorda un’usanza, forse la
più gioiosa, quella delle “barricate” agli sposi, e vede i miei genitori, Lino e
Giuseppina, ritratti lungo il cammino verso la chiesa.
Cossogno, Agosto 1957. Sciüpisce lungo il cammino degli sposi Copiatti Lino e Ramoni Giuseppina |
La tradizione è antichissima, già ricordata in molti statuti medievali del Novarese, della Valsesia e del Verbano-Cusio-Ossola ma anche del confinante Ticino, nei quali si vietava l’erezione di “barricate” per impedire il cammino agli sposi. La sciüpisce – così è chiamata a Cossogno, ma in ogni paese ha un suo nome – consisteva nel far trovare ai novelli sposi, sul cammino verso la chiesa, la strada sbarrata, simbolo delle difficoltà e delle asprezze della vita coniugale, con soste intermedie nel simbolico cammino verso il nuovo stato sociale e individuale.
Agli ostacoli da rimuovere
– rami, pali, ma a volte anche rovi – si accompagnavano attrezzi del lavoro,
oggetti domestici, una culla con bambolotto, sempre ad indicare la nuova
condizione sociale a cui gli sposi andavano incontro e come augurio di buona
fortuna e fecondità.
Per andare oltre era
necessario pagare un riscatto, offrire confetti e fazzoletti, superare prove
ancor più difficili se il marito era forestiero e quindi sottraeva la sposa
alla comunità.
Cossogno, anni '50 del secolo scorso, sciüpisce lungo il cammino egli sposi Perazzi Onorato e Tamboloni Maria |
Carlo Corbetta nella sua Monografia di Ungiasca pubblicata nel
1923 dedica ampio spazio agli usi e costumi del giorno di nozze:
«Era pure costume di
offrire un risotto a tutti i ragazzi del paese in occasione di nozze. Veniva
preparato dall’oste in una grande caldaia del bucato, che veniva trasportata in
istrada unitamente a mestoli, piatti e scodelle, di modo che ogni ragazzo
potesse servirsene a piacere. Era uno spettacolo degno di cinematografia il
vedere tutti questi frugoli avvicendarsi presso il mastodontico recipiente
fumante per riempire il piatto, e poi sedersi nelle vicinanze e mangiare a
sazietà. Frattanto la coppia
dei novelli sposi riuniva gli amici al pranzo rituale, mentre alcuni specialisti
praparavan loro la burla nuziale, che poteva essere una semplice cucitura a
sacco delle lenzuola nel letto, o la introduzione sotto le coltri di un mazzo
di ortiche; ma poteva spingersi anche alla asportazione totale del letto dei
coniugi ed al barricamento della porta. Allorquando poi gli sposi scendevano per la mulattiera a Cossogno per
recarsi in Municipio, trovavano ad un certo punto sbarrata la via da rovi e
spine accatastate e non potevano procedere oltre se non rimovendo a mezzo di
bastoni questo ostacolo, simbolo delle difficoltà ed asprezze della vita
coniugale».
Come detto, l’usanza delle
“barricate” era molto diffusa e con qualche variante da paese a paese. A Caprezzo
si formava con tre scale una sorta di portale, corredato da strumenti di lavoro.
Ad Arizzano il nome, stüpiscia, cambiava
di poco da quello in uso a Cossogno e Ungiasca, con gli stessi ostacoli
proposti negli altri paesi delle valli intrasche, compresa la beneaugurante cüna, la culla.
La tradizione a Ramello continua anche oggi,
anche se purtroppo i matrimoni in un paesino piccolo oramai sono pochi. «Anche
noi - ci dice Damiana Martinella - la chiamiamo stüpiscia, la
facciamo a matrimonio avvenuto quando gli sposi escono dalla chiesa facendo
tagliare un bel pezzo di legno allo sposo, ovviamente con resega che non taglia!».
Pure a Bieno era in uso la sciüpiscia o stüpiscia: «dopo
aver liberato la strada gli sposi dovevano prendere il bambolotto dalla culla
in segno di buon augurio e bere un po' di marsala» ci racconta Bruno
Paracchini. «I miei genitori Luigia e Mario - prosegue Paracchini - si sono sposati a Bieno
l'11 dicembre 1948. Due giorni dopo sono andati in viaggio di nozze a Suna a S.
Lucia passando dal sentiero di Cavandone. Hanno assistito alla messa, acceso
una candela, comperato un pezzo di torrone... e dopo un bel piatto di busecca
alla Società Operaia sono rientrati al paesello a piedi tutti contenti».
Bieno, 11 dicembre 1948. I coniugi Luigia Tedeschi e Mario Paracchini
osservano divertiti la stüpiscia.
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Il bambolotto è ben visibile anche nelle foto del matrimonio di Wilma e Carlo Martinelli, dove si nota anche un uccellino che esce dalla gabbietta e, sul tavolino, un fucile con il quale lo sposo, simbolicamente, avrebbe dovuto dimostrare la propria abilità di cacciatore.
Cossogno: sciüpisce dei coniugi Martinelli. Un uccellino esce dalla gabbia e sul tavolo è pronto il fucile (foto g.c. da Monica Martinelli). |
Nell’Alto Verbano, a Oggiogno, Trarego e Viggiona, era chiamata stupa (testimonianza di Fausto Spagnoli). A Rovegro sciüpa, in Val d’Ossola sciüp, in Val Divedro süpa e a Macugnaga ciüpu, in Val Strona ciupia, tutti nomi derivanti da sciüpàa, con il significato di “chiudere”, “sbarrare”. A Miazzina il nome era ben diverso: picherell, con il significato di “ostacoli, scherzi che si fanno agli sposi” come ci ha raccontato Valerio Dellavedova e come si legge nella pubblicazione Significato dei vocaboli del dialetto dei miazzinesi curata da Giampiero Spadoni. In altri casi, invece, si è mantenuto il termine citato negli antichi statuti: frecia (da fracte, barricate) e rosta.
«Tali usanze nuziali, già poco vive all’epoca in cui si scrivevan queste note, vanno sempre più cancellandosi anche nel ricordo, specie nei paesi ove, come si dice volgarmente, c’è commercio. Tuttavia ancora nella primavera di quest’anno (1913), a Bureglio, paesello della collina verbanese sopra Intra, si celebrarono tre matrimoni coll’antico costume degli archi infiorati detti stupisc, sotto cui gli sposi dovettero passare tagliando il nastro e pagando il pedaggio».
Miazzina: allestimento del picherell (foto g.c. da Filippo Spadoni) |
Nel 1913 Antonio Massara,
fondatore del Museo del Paesaggio di Pallanza, concludeva con la seguente nota un
suo scritto dedicato agli “Usi nuziali dell’Agro Novarese” (contenuto nel
prezioso Tipi e costumi della Campagna
Novarese):
«Tali usanze nuziali, già poco vive all’epoca in cui si scrivevan queste note, vanno sempre più cancellandosi anche nel ricordo, specie nei paesi ove, come si dice volgarmente, c’è commercio. Tuttavia ancora nella primavera di quest’anno (1913), a Bureglio, paesello della collina verbanese sopra Intra, si celebrarono tre matrimoni coll’antico costume degli archi infiorati detti stupisc, sotto cui gli sposi dovettero passare tagliando il nastro e pagando il pedaggio».
Da allora di anni ne sono
passati parecchi, eppure ancora di recente alcuni sposi di Cossogno hanno trovato
la sciupiscie a sbarrare il loro
cammino verso la chiesa o il municipio.
Non accusatemi di provare
troppa nostalgia per il passato, ma trovo bello vedere come alcune tradizioni
siano sopravvissute fino ai nostri tempi, magari mutando un po’ alla volta, di
generazione in generazione, pur mantenendo sempre il significato originario.
Bibliografia
A chi volesse approfondire l'argomento delle usanze nuziali consiglio il volume edito dal Gruppo Archeologico Mergozzo, I dì d`la festa, osservanza e trasgressione nel rituale festivo, 1990 e in particolare il contributo di Pierangelo Frigerio La festa ambigua ivi contenuto.
© Fabio Copiatti
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