domenica 4 settembre 2022

Cossogno, gennaio 1890: storie di osti, burattinai e gioppini...

In quel sabato di fine gennaio il freddo finalmente sembrava dare tregua e un timido sole filtrava tra le nubi. Sulla facciata dell’osteria, che maestosa dominava la piazza di Cossogno, l’ombra dello gnomone segnava la mezza. Un motto accompagnava la meridiana: “Il bel fabbricar fa il dolce impoverire”, antica saggezza popolare.
Un dipinto raffigurante la Santissima Trinità sovrastava la porta d'ingresso. Dentro, sul fondo del locale, in un grande camino la fiamma crepitava, propagando calore e luce. Accomodato a un tavolo, un uomo consumava il pranzo: una scodella di minestra, un tocco di pan biava e uno di spress, così erano chiamati il pane di segale e il formaggio di quelle valli.


Quando era arrivato in paese, ad alcuni aveva ricordato Mangiafuoco, il noto personaggio del libro “Le avventure di Pinocchio”, che il maestro Bartolomeo aveva fatto scoprire ai bambini del paese: «un omone così brutto, che metteva paura soltanto a guardarlo. Aveva una barbaccia nera come uno scarabocchio d’inchiostro, e tanto lunga che gli scendeva dal mento fino a terra: basta dire che, quando camminava, se la pestava coi piedi. La sua bocca era larga come un forno, i suoi occhi parevano due lanterne di vetro rosso, col lume acceso di dietro».
In realtà anche lui, Gaspare Valli da Bergamo, come il burattinaio descritto da Collodi era tanto burbero quanto generoso.
Trascorreva buona parte dell’anno girovagando di città in città e di paese in paese con i suoi burattini. Tornava a casa giusto il tempo per riabbracciare moglie e figli, poi ripartiva subito per pianure e monti di terre vicine e lontane.
Decideva di fermarsi dove c’erano fiere, mercati e ogni ricorrenza che richiamava gente anche da paesi vicini, così da avere pubblico per più giorni se non settimane.

A Cossogno era arrivato perché aveva saputo che il 26 dicembre, a Santo Stefano, accorrevano in paese da tutta la valle per la distribuzione del pane benedetto, ma anche perché la settimana successiva era in programma un triduo solenne in onore al patrono San Brizio. Appena giunto nella piazza del paese aveva preso alloggio nell’osteria di Alfonso Sbarra.
Lo Sbarra, oste per tradizione di famiglia, era uno scapolo quarantenne di aspetto ancora giovanile, elegante nei modi e nel vestire. Suo padre Giacomo era morto tragicamente due anni prima, travolto dal cavallo di un cliente. Perciò ad aiutarlo nella conduzione dell’osteria aveva assunto una ragazza del paese, tale Enrica Fantoli, poco più che ventenne: chissà, forse un giorno l’avrebbe anche potuta sposare, tanto quella giovane era brava e bella.

Intanto, mentre il burattinaio mangiava, dietro al bancone della mescita, l’oste leggeva “La Voce del Lago Maggiore e dell’Ossola”. Ad un tratto, distolto lo sguardo dal giornale, si rivolse al “Mangiafuoco” e disse:
– Oilà, bergamasco! Qui si parla di lei.
Il Valli alzò il capo dalla scodella di minestra fumante e lanciò un’occhiata indagatrice:
– Di me? Bene o male?

Era trascorsa una manciata di mesi da quando l’avevano allontanato da Intra. «Un giuoco se deve esser bello deve durar poco...», avevano detto, lamentandosi del fatto che da più di un mese – era sul finir dell’estate, allora – stazionava sulla piazza del Municipio con il suo spettacolo di burattini. «Non pretendiamo troppo, cangi almeno di luogo, e trasporti la sua baracca in altro punto della città per non disturbare più a lungo, sempre lo stesso vicinato», gli intimarono la sera del 23 agosto dell’anno appena terminato. Se n’era così andato, risalendo le valli intrasche in cerca di altro pubblico. Ora temeva che anche a Cossogno qualcuno si fosse lamentato della sua presenza.
– Bene, bene, se ne parla bene, tranquillo – riferì lo Sbarra, accomodandosi nuovamente gli occhiali e iniziando a leggergli quel che stava scritto su “La Voce” di venerdì 24 gennaio:
«Cossogno. Teatro. Abbiamo da un mese qui il nominato burattinajo Valli il quale sa tenerci allegri alla sera con bei divertimenti, e auguriamo a lui buoni affari e continuata permanenza».
Svuotata con velata soddisfazione la scodella e bevuto l’ultimo sorso di vino, chiese di poter sfogliare il giornale. Tristi notizie quel giorno, dalla celebrazione dei funerali del giovane Principe Amedeo di Savoia, Duca d’Aosta, fratello di Re Umberto I e a sua volta già Re di Spagna, al diffondersi veloce dell’influenza cosiddetta “russa”, che proprio nel Principe aveva visto la sua prima e forse più illustre vittima.
– Ah, brutta faccenda questa epidemia! – esclamò l’oste – Sono già tanti i contagiati e i morti. Anche qui in paese e nelle frazioni. Legga quel che scrive il giornale proprio oggi:
«Cossogno. L'influenza ha fatto capolino e molti sono gli ammalati. A Cicogna molte sono le vittime di questo male, basta dire che in men di 20 giorni morirono tre fratelli, certi Podico Vincenzo, Zaverio e Giovanni, l'ultimo dei quali è noto nella nostra valle sotto il nomignolo di Re di Cicogna».
– Questi Podico son miei colleghi – aggiunse lo Sbarra. – A Cicogna hanno l’Osteria del Re. Anche il cognato Felice Crivelli, maritato con la loro sorella Carolina, è morto qualche giorno addietro, sicuramente d’influenza. Il mese scorso a questi sposi era già morta una bimba appena nata. Anni prima, il 20 febbraio del 1888, anche l’altra loro figlia, Sofia, se ne andò tredicenne nei giorni della grande nevicata che isolò il paese per due settimane. Ricordo che firmai come teste la denuncia di morte. E voi, a Bergamo, come ve la passate? Avete notizie dei vostri parenti?
– Non so, io sono sempre in cammino con la mia baracca, sono mesi che non torno a casa – rispose il Valli, andando a ritroso nel tempo con ricordi e pensieri.
Era giunto a Cossogno la vigilia di Natale. L’inverno e le festività che stavano appressandosi erano occasioni propizie per attirare bambini e adulti al suo teatro di burattini. Infatti il pubblico non mancò mai ai suoi spettacoli, freddo e neve non frenarono mai l’entusiasmo per Gioppino e gli altri personaggi animati dalle sue abili mani.
Solo il lutto dei Cossognesi per la morte dell’illustre compaesano monsignor Giovanni Antonio Del Vecchio, avvenuta a Novara il 30 dicembre, consigliò al Valli qualche giorno di rispettoso silenzio. Il Del Vecchio, infatti, pur vivendo da anni all’ombra della cupola gaudenziana, era ancora di casa a Cossogno, dove aveva consuetudine ritirarsi per il riposo estivo.

L’anno nuovo era arrivato portandosi dietro pioggia e nevischio, tanto che le programmate celebrazioni straordinarie in onore del patrono S. Brizio già indette per il 4, 5 e 6 gennaio, furono differite al successivo fine settimana. Anche quelli si rivelarono giorni di grande festa per la moltitudine convenutavi che procacciò buoni affari agli alberghi, osterie ed esercizi vari, ma anche al nostro burattinaio. Il triduo di festeggiamenti lasciò una gradita soddisfazione in tutti, terrazzani e forestieri compresi che vi erano accorsi numerosi, specie il secondo giorno. Ogni cosa corrispose al programma stabilito e, in taluni casi, andò ben oltre le aspettative, come avvenne per l’arco trionfale eretto sulla piazzetta della chiesa parrocchiale a cura e opera dei fratelli Massera Pietro e Antonio, spalleggiati da un altro giovane muratore, Berlucchi Antonio. Il risultato del loro lavoro fu un’opera grandiosa, elegante e bizzarra insieme, riproducente la facciata architettonica di un palazzo, adorna di guglie e statue di martiri in costume antico.

Lo Sbarra distolse il burattinaio dai ricordi.
– Se mi permette le offro un bicchiere di quello buono. È Gattinara, viene dalle colline novaresi, è uno dei nostri vini migliori.
Neanche il tempo di accettare o rifiutare l’invito che l’oste era già seduto al suo tavolo con la bottiglia. Ormai era di casa all’Osteria di Cossogno e il proprietario, gran brava persona, l’aveva preso in simpatia. I clienti non gli mancavano, ma per il burbero e timido bergamasco aveva un occhio di riguardo. Certo non si spiegava come ad un tratto potesse diventare estroso e burlone quando animava i burattini. «Chissà… – pensò l’oste – forse davanti a sé immagina gli occhi attenti e allegri dei suoi figlioli, sempre pronti a divertirsi un po’, come tutti i bimbi del mondo».
Mal sopportava, invece, i minatori che da qualche giorno erano giunti in paese assoldati da Carlo Sutermeister. Impegnati nello scavo di gallerie che avrebbero condotto l’acqua del San Bernardino alla costruenda centrale della Lanca, avevano fama di grandi lavoratori, ma anche di attaccabrighe e gran bevitori.
– Buono questo Gattinara – disse il bergamasco all’oste – rallegra lo spirito!
– Sapevo che l’avrebbe apprezzato – rispose soddisfatto lo Sbarra.

La piazza di Cossogno: a destra l'osteria dello Sbarra, sullo sfondo la sala comunale

Frattanto il sole del meriggio stava calando e di lì a poco avrebbe cominciato a imbrunire. La piazza brulicava di gente. Là, sul fondo, sotto il portico della sala comunale, si ergeva la baracca con il teatrino dei burattini. Su alcune panchine allineate sedevano piccini e anziani. Tutti attendevano le gesta di Gioppino dai tre gozzi. Sarebbe apparso in compagnia dei suoi famigliari? Oppure si sarebbe battuto a colpi di bastone con Arlecchino, Brighella e Pantalone?
– Ora, caro amico, devo proprio andare, i miei burattini mi chiamano, non sente?
– Più che i gioppini, sento i bambini! Vada, vada, non la trattengo, lo spettacolo senza di lei non può certo iniziare. Vada, vada ma poi torni a trovarmi, che abbiamo ancora un bicchiere a testa di Gattinara da gustarci.
Una numerosa schiera di bimbi e di bimbe lo attendevano. Le loro voci si diffondevano festose nella piazza. «Come sono serene le gioie dell’infanzia! Come sono veri e schietti i loro piaceri! Com’è pura la loro felicità!», pensava tra sé e sé mentre raggiungeva il teatrino.


– Signore e signori, grandi e piccini, Gioppino è tornato anche stasera e vi presenta il suo nuovo spettacolo dal titolo: “Gioppino padre di famiglia” – urlò il burattinaio.
– E mi raccomando – proseguì – non ridete dei suoi tre bitorzoluti gozzi, per lui sono come coralli, dei veri e propri gioielli, essendo essi il blasone di famiglia. Che ora lo spettacolo abbia inizio!
Il Valli si ritirò sul retro della baracca e, nascostosi al suo interno, infilò la mano in un burattino che scanzonato e dinoccolato fece al sua comparsa sul palco:
Alura? ‘N vai o ‘n vegnèi? Son ol Giopì de Sanga, mé i me ciama töcc Giopì, ma ’l mé nòm a l’è Giosefì, fiöl de ’l quondam Bórtol Söcalonga e de Marièta Ceragnöca. Vivo con mia moglie Margì e mio figlio Bortolì. Ho anche due fratelli, Giacomì e il piccolo Pisanbraga.

Il Valli, dall’interno della baracca, non poteva vedere il pubblico ma lo sentiva! Bimbi e bimbe e molti adulti – paesani e foresti – ridevano a crepapelle, come e forse anche più dei piccoli spettatori. Al burattinaio bastava sentire quel ridere lieto e chiassoso, vibrante di note sincere e spontanee, messaggere di un’allegria che allargava il cuore di tutti i convenuti. Anche il suo, che intanto se ne stava nascosto nella penombra della baracca, e persino quello dell’Alfonso Sbarra, che sorridendo si godeva lo spettacolo da sotto il pergolato dell’osteria.

Gioppino, maschera e burattino bergamasco

Nota
Tutti i personaggi di questo racconto sono realmente esistiti, compreso il Valli, del quale presumo l'origine bergamasca essendo tale cognome presente nel '800 in alcuni paesi di quella provincia e la professione di burattinaio molto diffusa a Bergamo città e suoi dintorni. 
L'arrivo dell'influenza "russa" a Cossogno e frazioni è ricordato nel libro di F. Copiatti, "Cicogna ultima Thule", MonteRosa edizioni 2020 con il racconto Sofia e la grande nevicata.

Fonti
La Voce del Lago Maggiore e dell'Ossola del 23 agosto 1889, 3 gennaio, 1890, 14 gennaio 1890, 24 gennaio 1890.

Ringrazio mia moglie Sonia Roni e l'amico Pietro Pisano per la collaborazione.


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